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Centrodestra

Il male del Pd si chiama Pd?

Cosa ha detto Paolo Mieli sull'assenza di Schlein nel Pd, e cosa nascondono le continue liti nel centrosinistra. La nota di Paola Sacchi.

 

Forse c’è del vero in quello che Paolo Mieli ha detto in un’intervista all’Huffington Post, difendendo, controcorrente, Elly Schlein dal Pd che ora ne fa il capro espiatorio della sonora sconfitta alle Amministrative.

Mieli punta l’indice contro le correnti che da sempre la fanno da padrone nel Pd: “Disposti a tutto, pur di restare al potere”. Insomma, dal “centralismo democratico” di stampo Pci al “correntismo democratico”, si potrebbe dire. Qualcuno a sinistra vede nell’eterno dibattito o meglio nella lite continua nei dem, dove vige la regola dell’usa e getta dei segretari, segno di una vitalità interna da dialettica democratica di partito vero, a differenza di quelli leaderistici del centrodestra. Ma forse vale a questo punto l’inverso: è proprio il Pd che avrebbe bisogno di leadership salde e consolidate su una linea precisa. Senza brutali rottamazioni sconosciute al centrodestra.

Solo un esempio: Antonio Tajani da una onorevolissima sconfitta a Roma con circa il 49 per cento contro Walter Veltroni, allora una vera macchina da guerra, ebbe la possibilità dentro Forza Italia, disprezzata sempre dalla sinistra come “il partito di plastica”, di ripartire da lì e rilanciarsi con una carriera tutta in Europa da vicepresidente della Commissione a presidente del Parlamento europeo fino a diventare vicepresidente e coordinatore unico di Forza Italia, infine vicepremier e ministro degli Esteri del governo Meloni.

Veltroni, fondatore del Pd, reduce a sua volta da una onorevole sconfitta alle Politiche con Silvio Berlusconi, invece, pur avendo quasi la stessa età di Tajani, non è più in politica. La brutale rottamazione di renziana memoria sembra che il Pd l’abbia proprio adottata alla lettera. Cambiando ogni volta cavallo, pur di restare al potere.

Ma al fondo c’è il problema antico di quella che Fabrizio Cicchitto su il quotidiano Il Dubbio ha definito “la scelta di campo dei ragazzi di Berlinguer”, ovvero lo stesso Veltroni e Massimo D’Alema, che pensarono di bypassare le socialdemocrazia, e in Italia l’unica sinistra moderna, riformista, rappresentata da Bettino Craxi, per abbracciare, scrive Cicchitto, acriticamente “poteri forti e globalizzazione e giustizialismo”.

Forse per il Pd sono davvero venuti al pettine i nodi dei 90, dominati da “mani pulite”.

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