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Meloni

I pasticci governativi e la volontà di Meloni

Quello che sinistra e opposizioni non capiscono è che Giorgia Meloni vuole cambiare le cose, a costo di non riuscirci del tutto. Il commento di Battista Falconi sugli Appunti del presidente

 

Le minime incrinature nel consenso di Giorgia Meloni, del suo partito e della maggioranza che sostiene il governo, registrate dai sondaggi, non bastano certo a sancire la fine della “luna di miele”, per usare la stantia espressione cara ai commentatori. Sono probabilmente il mero riflesso di alcuni pasticci, gaffe, peccati veniali commessi in queste ultime settimane e nell’anno appena compiuto dall’esecutivo. Quale catalizzatore potremmo assumere la telefonata-beffa di cui si è già parlato e che ha avallato un’altra narrativa mediatica, secondo la quale Meloni sarebbe capace ma il suo staff inadeguato.

Una verità parziale e perciò ingannevole che risponde a un mito invalidante della sinistra italiana, sostenuto per esempio da Michele Serra ancora nelle sue ultime dichiarazioni: ci confronteremmo con la destra, peccato sia impresentabile, si migliori e vediamo. Cioè: sono democratico, parlo con tutti, purché mi vadano bene. Una contraddizione terribile, che nasconde il vecchio pugno di ferro del totalitarismo comunista nel guanto di velluto del garbo formale. Il paradigma concorre a far sì che anche dopo lo sdoganamento politico (ottenuto in Italia grazie a Craxi, Cossiga, Berlusconi, Tangentopoli etc.) gli establishment di magistratura, ministeri, diplomazia, cultura, imprese, sindacati siano ancora in gran parte nelle mani progressiste cosicché i conservatori, quando ottengono il mandato per amministrare e governare, non godono di un potere reale, completo, effettivo.

Anche questa sorta di egemonia gramsciana concorre ai “pasticci” governativi: migranti in Albania e altri accordi sui flussi, manovra finanziaria senza emendamenti, stretta pensionistica sui medici, tassa sugli extraprofitti bancari… Decisioni e misure annunciate in modo stentoreo e in parte rimangiate nell’applicazione normativa, a seguito del groviglio di poteri diffusi (più che forti) in grado di impantanarla. Prendiamo solo l’ultimo esempio: le maggiori banche hanno realizzato negli ultimi nove mesi più di 16 miliardi di utili senza fare nulla, godendo del divario tra tassi passivi e attivi generato dalle banche centrali (mentre la produzione industriale cala, guarda caso). Non che siano state le uniche a beneficiare di agevolazioni nazionali e internazionali, intendiamoci: si pensi al bengodi pandemico e post-pandemico delle industrie farmaceutiche. Eppure, chiedere di far tornare agli Stati qualcosa di questo lucro in termini di gettito fiscale è una missione impossibile. L’Ue è ovviamente il fulcro dei poteri “altri” che si oppongono agli eletti dai popoli sovrani. Per l’Italia in particolare, che infatti conta una serie cospicua di attriti con le istituzioni comunitarie: Mes, Patto di stabilità, normative verdi, fino alla cessione di Ita a Lufthansa, solo per dirne alcune.

Meloni ha appena postato l’ultimo degli Appunti di Giorgia e l’affermazione più evidenziata è stata quella sul referendum per validare le riforme elettorali, mentre ci pare più indicativa quella per cui non le interessa stare a Palazzo Chigi se le cose non cambiano davvero, se tutto dovesse tornare come prima. La differenza eclatante dell’attuale governo è l’essere politico non nel senso del ritorno dei partiti al predominio ministeriale ma del legare il proprio operato alla volontà popolare e agli impegni assunti con gli elettori, che il presidente del Consiglio è caparbiamente intenzionata a mantenere, a costo di fare altri “pasticci” e marce indietro. Con una volontà ferrea che le opposizioni faticano a coglierne il senso, preferendo basare anche le azioni più impegnative, come le manifestazioni di piazza programmate, su quegli errori che sono in realtà la dimostrazione della lineare visione meloniana.

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