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Papa Francesco e Immanuel Kant: viene prima la pace o la libertà?

Considerazioni (di un crocianamente cristiano) tra filosofia e religione su guerra e pace. Il Bloc Notes di Michele Magno

Dall’inizio del suo pontificato non si contano gli appelli di Papa Francesco perché la pace, cioè per lui il “bene assoluto”, prevalga sulla guerra, cioè sempre per lui il “male assoluto”. Nonostante l’alto e nobile magistero del pontefice, questo male assoluto non sembra però sradicabile dalla storia umana. Ciò ripropone anche a un non credente come chi scrive, ma che si considera crocianamente cristiano, una questione che fu avanzata per primo, nella sua formulazione più radicale, da Epicuro (341-270 a.C) con la sua famosa “equazione”: “La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, dobbiamo ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia invidiosa, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e invidiosa; se poi vuole e può, la sola che conviene alla sua essenza, da dove dunque provengono i mali e perché non li abolisce?”.

È nota la risposta a queste obiezioni che ha finito col prevalere nella teologia cristiana, nella versione di Origene come in quella di Agostino: il male non è altro che assenza di bene (“privatio boni”). Ma è stato soprattutto Agostino a insistere sulla corruzione congenita che deriva, per trasmissione, dal peccato originale dei “protoplasti” (ossia dei “progenitori”, Adamo e Eva). Corruzione congenita che è madre di un male morale da cui soltanto la grazia insondabile del Signore libera i predestinati.

L’età moderna conosce tre grandi teodicee: quella di Leibniz, di Spinoza e di Malebranche. Pur partendo da presupposti diversi, giungono a un identico risultato: Dio non avrebbe potuto creare un mondo diverso da quello attuale. Le teodicee moderne pretendevano, dunque, di rendere il male pienamente intellegibile e giustificabile. In un breve scritto pubblicato nel 1791, “Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea”, Kant considera esecrabile che Dio giudichi con regole diverse da quelle degli uomini, e che quel che appare male a noi sia per lui legittimo. Secondo l’autore delle tre “Critiche”, è la sofferenza e l’indignazione di Giobbe che emozionano; le “parole in difesa di Dio”, invece, irritano e non consolano. La demolizione kantiana della teodicea e gli orrori del “secolo breve” hanno contribuito alla crisi della dottrina agostiniana che nega la realtà del male.

Un’ultima considerazione. La crisi del “Dio-tappabuchi” (l’espressione è del  pastore luterano Dietrich Bonhöffer, impiccato dai nazisti nel 1945), acuita dal trauma della Shoah, dovrebbe aver congedato l’idea di un male strumentale che serve a far meglio risplendere la bontà di un Dio sapiente alchimista, che trae il bene dal male.

 

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Il suo nome qualche volta è evocato per rivendicare i quarti di nobiltà che ha la dottrina della “pace a qualunque costo”. Negli articoli degli intellettuali più irriducibili del pacifismo etico, invece, viene spesso citato per legittimare una sorta di obiezione di coscienza all’invio di armi in Ucraina. Il nome è quello di Immanuel Kant, l’autore di “Zum ewigen Frieden”, noto in Italia con il titolo improprio, ma ormai canonico, “Per la pace perpetua” 1795). È considerato uno dei suoi testi più celebri e suggestivi, un autentico capolavoro d’ineguagliabile eleganza e straordinaria originalità. Ma, a differenza dell’integralismo pacifista, ancorato all’assunto erasmiano che “la pace più ingiusta è migliore della più giusta delle guerre”, ovvero che la pace è il bene supremo, da anteporre incondizionatamente a ogni altro valore (libertà inclusa), Kant respinge decisamente l’idea di una pace realizzata a qualsiasi prezzo, anche a costo di essere edificata sul “cimitero della libertà”. E, pur riconoscendo nella guerra un “flagello del genere umano”, non la considera però un “male così incurabile” come la ben più temuta “tomba di un dominio unico”. Egli infatti mette in guardia contro i rischi di una pace universale e durevole realizzata “sotto un solo sovrano”, destinata a sfociare nel “più orribile dispotismo”.

Se però l’immagine settecentesca di un Kant pacifista risulta in larga misura improbabile, la speculare tesi di un Kant giacobino è priva di fondamento. La sua “pace della ragione”, basata sul riconoscimento del “contrasto pacifico tra i popoli”, ha sicuramente ben poco in comune con l’ingenua utopia pacifista che vagheggia l’estinzione di ogni conflitto. Del resto, fatta salva la sua indiscussa simpatia per la Francia repubblicana, i moniti e i timori espressi dal filosofo in diversi luoghi di “Zum ewigen Frieden” riguardavano proprio il ricorso indiscriminato alla guerra “pacificatrice” teorizzata dall’ala più radicale dei rivoluzionari francesi, convinti assertori dell’idea che, sull’altare della pace futura, potesse essere giustificato qualunque mezzo, persino una guerra di sterminio.Il progetto kantiano di sostituzione della guerra con il diritto, insomma, è sideralmente distante sia dal fondamentalismo rivoluzionario e messianico, per il quale tutti i mezzi sono leciti pur di ottenere la pacificazione finale degli stati europei sotto il dominio francese, sia dalla “pace dell’amore” di Robespierre: di un amore, però, destinato a trionfare pienamente solo dopo aver eliminato con la forza coloro che lo soffocano.

Diversamente da Robespierre, la pace perpetua di Kant non è il frutto dell’amore fra gli uomini, né deve giovare al loro benessere e alla loro felicità, ma “è unicamente conforme al diritto”: essa non è affatto “uno stato finale etico-religioso” né “un paradiso terrestre”, bensì la pura “regolazione giuridica degli antagonismi”. Animati da un’ideologia filantropica, messianica, apocalittica, espansionista e certa della sua rettitudine, i giacobini francesi miravano invece alla eliminazione di ogni antagonismo e all’instaurazione universale di una pace perenne -ossia definitiva e assoluta- attraverso una guerra rivoluzionaria che avrebbe inaugurato, grazie a un ultimo “spasmo di violenza”, una nuova èra di beatitudine.

La connessione tra pace perpetua, felicità dei popoli ed età dell’oro, intesa come condizione ideale per il tranquillo godimento dei beni terreni, è del tutto estranea al pensiero kantiano, ma sembra piuttosto riecheggiare, come aveva intuito l’ex-montagnardo Danton, arcaiche e mai completamente dimenticate credenze folkloriche nel leggendario “Paese di Cuccagna”: quel luogo mitico ove il benessere, l’abbondanza e il piacere sono alla portata di tutti. Per quanto paradossale possa apparire, il pacifista Kant al contrario paventava – non meno del “bellicista” Hegel – gli effetti rovinosi di una “lunga pace”, in cui il predominio del “basso interesse personale”, della “viltà” e della “mollezza” avrebbe corrotto “il carattere e la mentalità del popolo”.

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