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Pandemia in Italia: record negativi tra fatalità e imperizia

Pandemia: il confronto impietoso dell'Italia con gli altri Paesi - sulla scorta dei grafici della  Johns Hopkins University - solleva una domanda: si è trattato di semplice fatalità o di colpevole imperizia degli organi titolati? L'analisi di Gianfranco Polillo

Dalle stelle alle stalle: in queste ultime settimane il giudizio sulla conduzione della lotta al coronavirus, da parte del governo italiano, è drasticamente cambiato. Nei mesi passati si era addirittura parlato di un “modello di virtù” da imitare ed esportare. Nel contrasto alla pandemia – aveva detto il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus – “l’Italia è stata un esempio scintillante, con unità nazionale e solidarietà, impegno comune e umiltà anche la situazione peggiore si può invertire”. Oggi invece piovono critiche feroci sull’assenza di un piano contro la pandemia ed il pagamento di ingenti somme di intermediazione per l’acquisto di presidi sanitari.

Cosa è stato a determinare un passaggio così traumatico? Vi ha, indubbiamente, contribuito quell’accentramento di potere nelle mani del presidente del Consiglio, che Giuseppe Conte, avrebbe voluto ripetere in tema di Recovery Plan. L’esperienza costituzionale insegna che la corsa in solitario, in un regime democratico, funziona solo finché si possono vantare innegabili successi. È questo il caso italiano? Non sembrerebbe, se si guarda al contesto internazionale e si fanno i necessari paragoni. Sono i dati della Johns Hopkins University a gettare nello sconforto. In due distinti grafici, l’Italia, tra i venti Paesi più colpiti dal virus, occupa rispettivamente la terza e la prima posizione.

Nel primo dei due grafici, postati sul sito dell’Istituto, l’Italia occupa il terzo posto nella classifica che riguarda il tasso di letalità (case-fatality, secondo il relativo standard), che è dato dal rapporto tra il numero dei deceduti e quello dei contagiati. Esprime in qualche modo la probabilità di un possibile decesso, tra coloro che hanno subito il contagio. Per l’Italia questo rischio è valutato nel 3,5 per cento dei casi. Per il Messico, al primo posto, questa percentuale è pari al 9,2 per cento. Segue l’Iran, con un valore pari al 4,7 per cento. La Gran Bretagna è a pari merito con l’Italia. Che, a sua volta, non ha altri termini di paragone in Europa. In Spagna l’indice è pari al 2,8 per cento, in Francia al 2,4, in Germania che ha appena deciso il lockdown, all’1,6 e negli Stati Uniti, nonostante le follie di Donald Trump, all’1,9 per cento.

Nel secondo grafico, invece (numero dei morti per 100 mila abitanti) l’Italia occupa il primo posto, con un valore pari a 105,96. Seguita da Spagna (101.93) e dalla Gran Bretagna (96,44). In Germania l’indice è pari a 26.41. C’è solo da aggiungere che quei 64 mila decessi che finora si sono registrati in Italia equivalgono a circa il 10 per cento del totale dei morti nel 2019. Che sono stati pari a 647 mila. Nei primi nove mesi dell’anno, il numero dei decessi, secondo le ultime rilevazioni dell’Istat (3 dicembre 2020), mostra un incremento pari al 9 per cento, rispetto alla media, nello stesso periodo, degli anni 2015-2019.

Il confronto impietoso con l’estero solleva inevitabilmente una domanda: si è trattato di semplice fatalità o di colpevole imperizia degli organi titolati? Probabilmente qualsiasi altro governo, di fronte ad una crisi così generalizzata, frutto di cause poche conosciute, non avrebbe potuto fare di più. Resta tuttavia più di un sospetto. In Italia, infatti, si è di fronte a un personale politico che è il meno professionalizzato della storia della Repubblica. Vedere quindi meglio quanto è successo, nel corso di quest’anno, può contribuire a risolvere il dilemma.

Nel decorso della pandemia si possono distinguere tre distinti periodi. La prima ondata inizia alla fine di febbraio e si trascina per quasi tre mesi. Dopo le prime inevitabili incertezze, di fronte ad un virus sconosciuto, si giunge al lockdown totale, che inizia il 19 marzo e termina due mesi dopo. In questa fase la reazione popolare è encomiabile e distrugge tutti gli stereotipi sugli italiani “spaghetti e mandolino”. Esemplare risulta essere il senso di responsabilità e di disciplina, al punto da suscitare meraviglia e stupore all’estero.

Durante questa fase, si contano circa 230 mila contagi ed oltre 32 mila morti. Il tasso medio di letalità è pari al 14,2 per cento. La distribuzione geografica, tra le diverse regioni, è totalmente asimmetrica. Quelle del Nord (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana e Liguria) fanno registrare quasi l’80 per cento dei contagi e l’85 per cento dei decessi. La Lombardia, in particolare, raggiunge il triste primato del 38 per cento dei malati, del 48 per cento dei morti, con un tasso di letalità del 18,3 per cento. Fosse capitato in qualsiasi altra regione, meno dotata dal punto di vista delle strutture sanitarie e con minore capacità finanziaria, il disastro sarebbe risultato ben maggiore.

Per fortuna il sole dell’estate determina un forte miglioramento. Nei successivi 5 mesi, infatti, la diffusione rimane endemica, ma il numero dei contagi giornalieri si riduce notevolmente. Durante la prima ondata erano stati in media pari a circa 2.600 casi, in questa fase si dimezzano. Ma soprattutto crolla il numero dei decessi: da una media giornaliera di 379 a 29. Forse è questo secondo elemento che fa abbassare la guardia, sebbene si parli dell’ineluttabilità di una seconda ondata. Previsione buona sola per alimentare il dibattito nei talk show. Pochissime, invece, le decisioni assunte per migliorare gli assetti sanitari del Paese e, quindi, ridurre il tasso di letalità.

L’errore principale fu quello di non considerare la diversa estensione dei contagi e delle morti. Ancora una volta una distribuzione asimmetrica con oltre l’80 per cento dei malati e dei defunti rispettivamente in nove ed in otto regioni. Ma con una distribuzione sul territorio nazionale molto meno rassicurante. Non solo le regioni del Nord, della prima ondata, con alla testa la Lombardia, ma la le new entries della Campania e del Lazio, rispettivamente al secondo e terzo posto. Di territori, cioè, in cui le strutture sanitarie non erano certo paragonabili a quelle delle più avanzate zone d’Italia. Era allora che doveva scattare un campanello d’allarme. La pandemia stava invadendo territori in precedenza risparmiati, le cui dotazioni sanitarie erano del tutto inadeguate.

Si poteva provvedere? Nessun dubbio alcuno. Sarebbe bastato utilizzare i fondi del Mes, già disponibili a giugno, per sostenere le spese indispensabili per far fronte alle carenze delle strutture e di presidi ed alla mancanza di uomini. Invece di rimanere prigionieri di una pregiudiziale ideologica costruita solo per motivi identitari. Se non proprio per spirito di bottega. Avremmo, allora, affrontato meglio la seconda ondata, che con la fine dell’estate già si intravedeva all’orizzonte.

Ed alla fine tanto tuonò che piovve. Dalla seconda decade di settembre, ancora una volta, la conta dei casi divenne la notizia principale di quasi tutti i media. Preoccupava soprattutto la maggiore virulenza della pandemia. Il Covid-19 si presentava con un tasso di diffusione giornaliero che, in questa fase, è stato pari a circa 10 volte quello della prima ondata. Per fortuna, il numero dei morti non ha seguito la stessa dinamica. Con un incremento (più un 30 per cento al giorno) ben più contenuto, grazie al crollo dell’indice di letalità: dal 14,2 all’1,9 per cento. Sul piano territoriale, tuttavia, la distribuzione risultava ancora asimmetrica, sebbene in misura minore rispetto alla prima ondata. Con la Lombardia in testa, sia per numero dei contagi che dei decessi, ma con percentuali decrescenti. Mentre l’elenco si allungava con l’ingresso della Campania, della Sicilia e della Puglia.

Un quadro tutt’altro che rassicurante, quindi: con un indice di letalità, per fortuna, fortemente diminuito, ma un tasso di crescita del contagio fin troppo elevato. E, quindi, un numero di morti ben superiore a quelli della prima ondata. Elemento drammatico di questa nuova fase, cui è necessario porre rimedio, prima che si sviluppi quella terza ondata di cui, nuovamente, si sta parlando. Per guadagnare il tempo necessario per giungere a quella vaccinazione generalizzata che dovrebbe – almeno così si spera – rappresentare la fine del flagello.

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