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Nuova Caledonia

La Nuova Caledonia rimarrà francese (mentre la Cina osserva)

Perché la decisione della Nuova Caledonia di rimanere in Francia è rilevante. L'articolo di Enrico Martial

 

Domenica 12 dicembre, si è tenuto il terzo referendum sull’indipendenza della Nuova Caledonia, e la scelta è stata ancora una volta di rimanere in Francia. Ci sono sfumature: la vittoria è netta, al 96,49 %, ma con i votanti soltanto al 43,9%. Gli indipendentisti avevano invitato a disertare le urne, causa Covid. Nei due passati referendum, l’indipendenza era stata rigettata nel 2018 con il 56,67%, e nel 2020 con il 53,26%. Gli originari kanak sono oggi il 39% della popolazione totale, e la partita non è ancora risolta.

Sembrano faccende altrui e da lasciare alla Francia, mentre si osserva dall’Italia e con sguardo semplificato. Tuttavia, ci sono argomenti – almeno due – che suscitano interesse. Il primo riguarda la Cina.

Sabato 12 dicembre, alla vigilia del voto, verso la fine del telegiornale delle 20 di France 2, un servizio ha messo direttamente in relazione il referendum e l’influenza cinese. Emmanuel Macron, in visita a Nouméa l’aveva detto già il 5 maggio 2018: la Cina sta costruendo una propria egemonia e “se non ci organizziamo sarà un’egemonia che ridurrà le nostre libertà”. Aveva da poco incontrato il presidente australiano, il 3 maggio, con l’idea di allinearsi anche con l’India in funzione di protezione dalla Cina. Con l’Australia (e gli Stati Uniti) nei mesi scorsi sono volati poi gli stracci con la rottura del contratto dei sottomarini del 2016. La Francia non era neppure menzionata nella strategia nell’indo-pacifico tra Washington e Canberra (e Londra).

Eppure, la Nuova Caledonia è interessante. Ha una zona esclusiva di pesca da 1 milione e 450mila kmq, e soprattutto è il 6° produttore mondiale di nickel. Sul nickel si giocano i contrasti tra indipendentisti e lealisti, con diverse opacità e debiti finanziari consistenti, a indebolire ancora più lo scenario in favore cinese.

Nel 2017, Zhai Jun, l’allora ambasciatore cinese in Francia, aveva trascorso una settimana nell’isola, seguito da altre delegazioni, anche in relazione con i gruppi indipendentisti. La Cina è molto presente nell’area: per esempio nella vicina Vanuatu (270mila abitanti) con una trentina di progetti e persino la costruzione della residenza del primo ministro. Ci sono stati allarmi per possibili loro basi militari, e di recente si è assistito a una ondata contraria. Il 29 novembre scorso, si registravano violente rivolte nelle isole Salomone (800mila abitanti) in cui si sono fatte macerie del quartiere cinese.

La seconda sfumatura, accanto a quella cinese, riguarda l’Europa, e un po’ anche l’Italia. La Francia ha esplicitamente lamentato la propria insufficienza nel gestire una partita così importante con le risorse di un Paese solo, al netto della questione indipendentista. Ha cercato relazioni in occidente – incontrando difficoltà statunitensi e australiane – e ha percorso la strada dell’europeizzazione.

Un documento del 16 settembre scorso traccia pezzettini di Strategia dell’Unione europea per l’Indopacifico, e se ne fa anche cenno nel Programma di lavoro che accompagna il Trattato italo-francese del Quirinale, firmato il 26 novembre scorso. Per l’indopacifico si elencano tre punti: rafforzarne l’approccio europeo, coordinare le reti diplomatiche, collaborare in difesa e sicurezza marittima.

La Francia, come nel Sahel, da sola ha pochi mezzi, e porta allora in dote pezzi della sua politica estera che rischiano di scomparire. In Nuova Caledonia ha soltanto 1450 militari, e 950 più lontano, nella Polinesia francese. Ripreso da France 2, Johanito Wamytan, di FLNKS, il partito indipendentista, faceva notare che la Cina “ha una forza finanziaria di cui la Francia non dispone”. La Francia no, ma forse l’occidente, forse l’Europa.

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