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Politica

Noterelle sulla spazzatura giornalistica (e non solo) ai tempi del Coronavirus

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Nessuno è bugiardo come l’uomo indignato, recita un aforisma di Nietzsche. Gli italiani, anche grazie a una campagna di stampa sfacciatamente qualunquistica, si sono molto indignati per l’aumento dello stipendio di Pasquale Tridico, il presidente dell’Inps. Naturalmente la cosa non ha niente a che fare con le prove a dir poco scadenti che ha fornito nel corso della sua gestione, in particolare nei periodi più drammatici della pandemia. Ma un conto è la critica politica, un conto la demagogia. Come ha scritto Paolo Branca su “strisciarossa”, sta qui l’ultimo paradosso della vicenda: i sedicenti campioni del garantismo e dell’antipopulismo della maggioranza di governo a fianco di Matteo Salvini e Giorgia Meloni nel chiedere la testa di un dirigente pubblico sulla base di un titolo di giornale. È proprio vero che il virus del populismo ormai non risparmia nessuno.

Ma torniamo all’aforisma di Nietzsche. Gli italiani sono quindi bugiardi? Diciamo che il loro sdegno morale è assai selettivo. Molti navigator, ad esempio, pur retribuiti regolarmente lavorando poco o niente, hanno chiesto e ottenuto il sussidio di 600 euro. I percettori del reddito di cittadinanza, invece, sono stati “risarciti” con l’esonero temporaneo dall’obbligo di accettare un’offerta di lavoro. Ma nessuno ne ha menato scandalo. Del resto, stando ai dati dell’Istat e dell’Inps, siamo un paese in cui la metà delle pensioni è integrata dall’erario e il 44 per cento dei potenziali contribuenti non paga sostanzialmente le tasse (evasori a parte) perché dichiara un reddito troppo basso.

Uno scenario da terzo mondo, a cui però si contrappone una realtà che vede, oltre alla nota capacità di risparmio dei nostri connazionali, 49 milioni di smartphone, 40 milioni di automobili circolanti (una per abitante esclusi minorenni e ultraottantenni), otto cittadini su dieci proprietari di una casa. Una clamorosa contraddizione, che un battutista geniale come Marcello Marchesi avrebbe forse spiegato così: il mondo è fatto a scale, ma chi è furbo prende l’ascensore.

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Sono tanti i costumi degli italiani che nei suoi elzeviri Ennio Flaiano ha saputo descrivere e anticipare con malinconico disincanto, nella sempiterna consapevolezza che nel nostro paese “la situazione politica è grave ma non è seria”. In uno dei più corrosivi, scrive:

“Volere è potere: la divisa di questo secolo. Troppa gente che ‘vuole’, piena soltanto di volontà (non la ‘buona volontà’ kantiana, ma la volontà di ambizione); troppi incapaci che debbono affermarsi e ci riescono, senz’altre attitudini che una dura e opaca volontà. E dove la dirigono? Nei campi dell’arte molto spesso, che sono oggi i più vasti e ambigui, un West dove ognuno si fa la sua legge e la impone agli sceriffi. Qui, la loro sfrenata volontà può esser scambiata per talento, per ingegno, comunque per intelligenza. Così, questi disperati senza qualità di cuore e di mente, vivono nell’ebbrezza di arrivare, di esibirsi, imparano qualcosa di facile, rifanno magari il verso di qualche loro maestro elettivo, che li disprezza. Amministrano poi con avarizia le loro povere forze, seguono le mode, tenendosi al corrente, sempre spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell’adulazione, impassibili davanti ad ogni rifiuto, feroci nella vittoria, supplichevoli nella sconfitta. Finché la Fama si decide ad andare a letto con loro per stanchezza, una sola volta: tanto per levarseli dai piedi” (Taccuino 1951, in “Diario notturno”).

Settant’anni fa era un ritratto, sconsolato e severo, della società letteraria della sua epoca. Oggi potrebbe benissimo essere quello, fedele e crudo, della “nouvelle vague” dei cittadini che un tempo non lontano amavano esibirsi festosamente dai balconi dei palazzi romani del potere.

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Nell’estate del 1874, cominciando a scrivere l’odissea dei due copisti Bouvard e Péchuchet, Gustave Flaubert si era proposto di redigere l’inventario della stupidità umana, un tema che lo ossessionava fin dalla giovinezza. Pubblicato postumo e incompiuto sette anni dopo, non si salva nessuno in questo geniale romanzo filosofico che anticipa i talk show e i reality odierni. I suoi protagonisti incarnano a meraviglia il “Chiunque” che impazza su Internet: provvisto d’un forte istinto gregario, è un tuttologo credulone che si ingozza di luoghi comuni e passa disinvoltamente da un argomento all’altro, incapace di scegliere ma convinto di poter arrivare ovunque con poca fatica.

Flaubert usa l’impassibilità del referto medico per stilare una requisitoria spietata contro un falso sapere consolatorio e ingannevole. La stupidità lo indigna e, al tempo stesso, lo affascina. Fa dire a Pécuchet che i borghesi sono avidi, gli operai invidiosi, i preti servili e il popolo vile e insulso; e a Bouvard che il progresso è una fandonia e la politica una porcheria. Ha scritto il critico letterario Ernesto Ferrero che la sua grandezza è proprio quella di fare arte con un materiale così degradato, montando un magistrale trattato sulla banalità del male, sul sussiego della cultura, sull’umana mediocrità. Se l’autore di “Madame Bovary” vivesse oggi, probabilmente per raccontare la “bêtise” (idiozia) dell’Italia biscontiana si servirebbe soprattutto della spazzatura prodotta, ormai in quantità industriale, sui mass media e sui social network da un ceto politico sempre più imbarazzante.

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“Se una grande parte degli elettori figura sul libro paga dello Stato […] Se i membri del parlamento non si considerano più mandatari dei contribuenti ma rappresentanti di coloro che ricevono salari, stipendi, sussidi e altri benefici presi dalla risorse pubbliche, la democrazia è spacciata” (Ludwig von Mises).

Ogni riferimento a quelli che… ora intervenga la Cassa Depositi e Prestiti non è puramente casuale.

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Nella cultura classica il nero è associato ai giorni funesti, alla morte, agli inferi. Nella tradizione giudaico-cristiana il demonio, principe delle tenebre, si personifica nell’etiope che, per la sua “nigredo”, supera anche l’egizio, storico nemico del popolo eletto. Come “niger puer” si presenta il diavolo ad Antonio e a Gregorio Magno, nera è la valle dell’inferno dantesco. Nella “Chanson de Roland” un saraceno, dal significativo nome di Abisso, è “nero come la pece fusa”. Speriamo che i politically correct de’ noantri lo ignorino. Sarebbero capaci, infatti, di mettere al rogo la Bibbia e i testi delle antiche letterature romanze.

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L’Hermannsdenkmal è il monumento più grande della Germania. Fu inaugurato dall’architetto Ernst von Bandel nel 1875. È composto da un basamento e da una statua alti entrambi ventisette metri. Sorge su una collina boscosa nei pressi di Detmold, città del Nord Reno-Westfalia, nella parte meridionale della foresta di Teutoburgo. La statua raffigura Arminio, che nel 9 d.C sterminò le legioni romane di Publio Quintilio Varo. Il duce dei Cherusci impugna una spada, lunga sette metri, rivolta verso Ovest. In basso, sotto il piede sinistro, si trovano un’aquila e un fascio. Sul basamento campeggia l’iscrizione “Deutsche Einigkeit Meine Stärke” (“La mia forza è la Germania unita”). Il monumento, simbolo dello spirito nazionale teutonico, ogni anno è meta del pellegrinaggio di quasi due milioni di tedeschi. Preferisco gli oltre quattro milioni di italiani (e stranieri) che, prima del  lockdown, ogni anno visitavano le Gallerie degli Uffizi.

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