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Pestilenze

Noterelle storiche sulle pestilenze in Europa

Il Bloc Notes di Michele Magno

La peste bubbonica del 541 d.C. è la prima grande pandemia documentata dalle cronache del tempo (cfr. Carlo Venuti, La vita al tempo della peste, in Quaderni Guarnierani, n.6, 2015). Colpì sia l’impero romano-bizantino che la Persia e altre regioni orientali. Costantinopoli perse quasi la metà dei suoi abitanti (allora ne contava circa duecentomila). Si aprirono così le porte alle invasioni dei popoli nomadi provenienti dalla penisola arabica, da poco convertiti all’Islam. Le pestilenze devastarono l’Europa continentale almeno fino al 760. Medici cristiani e mussulmani studiarono l’infezione, le sue cause e i modi per prevenirla,  riprendendo libri sacri e autori classici: Tucidide, Galeno, Ippocrate, Aristotele, Platone, Rufo di Efeso ed i cronisti dell’età giustinianea. Al-Razi (850-923) medico di Bagdad, diede la prima chiara descrizione clinica di queste affezioni; già nel 910 aveva trattato la sintomatologia del vaiolo. Fiorirono le traduzioni in arabo e i commentari ai testi medici antichi: fu anche merito di questo impegno scientifico-letterario se l’Occidente riscoprì la scienza del mondo classico.

Dopo la cosiddetta rinascita dell’anno Mille (espansione demografica, aumento della produttività agricola grazie anche ai metodi introdotti dai monaci cistercensi e cluniacensi), all’inizio del Duecento l’Europa settentrionale (circa trenta milioni di abitanti) fu attraversata da un sensibile cambiamento climatico, una piccola “età glaciale” con inverni rigidi ed estati umide. Dalla primavera del 1315 fino al 1322 le stagioni eccessivamente piovose compromisero la produzione cerearicola, quella dell’uva e della frutta con la distruzione di molti raccolti.

Vittime della conseguente carestia furono non solo le famiglie, ma anche gli animali da lavoro (buoi, cavalli) e da carne (buoi, animali da cortile). Nelle estati troppo piovose, il caldo umido faceva proliferare parassiti e muffe delle piante. Videro la luce nuove malattie che fecero strage di ovini e bovini. Greggi e mandrie furono falcidiate dalla “peste bovina”. La popolazione si adattò al consumo della carne suina, compromettendo la conservazione e la riproduzione del patrimonio zootecnico. Altre misure, quali le semine più frequenti e la coltivazione estesa a tutti i terreni disponibili, non si rivelarono risolutive; al contrario, esaurendo la fertilità della terra, determinarono raccolti sempre più esigui.

È su questa Europa, indigente e sottoalimentata, che si abbatte la catastrofe della “Morte Nera”. Nell’autunno del 1347, dodici galere genovesi provenienti da Costantinopoli sbarcarono a Messina. In mezzo alle merci conservate nelle stive c’erano topi portatori del bacillo della peste. Dalla Sicilia si diffuse velocemente in tutto il Vecchio continente, sterminando un terzo della popolazione. È la grande peste del 1348-1351, che Giovanni Boccaccio mise sullo sfondo del Decamerone. Il morbo, comparso in Asia centrale attorno agli anni Venti del Trecento, nel 1345 aveva raggiunto via terra la Crimea; la sua avanzata divenne più rapida quando dai porti commerciali sul mar Nero invase via mare il bacino del Mediterraneo (Costantinopoli, Alessandria, Cipro, poi Messina, Genova, Firenze, Venezia), divampando successivamente tra i popoli del Levante islamico e del Nordafrica.

La diffusione della peste fu favorita dall’avvio del conflitto tra Francia e Inghilterra passato alla storia come “Guerra dei Cent’anni”. L’iconografia popolare rappresentava il morbo come una nube di frecce scoccate dall’alto, contro le quali faceva da scudo san Sebastiano, il soldato romano del terzo secolo giustiziato per la sua fede. Nel Medioevo comparirà assieme a Rocco, il santo raffigurato con un rigonfiamento sulla coscia, un bubbone, appunto. Anche la Chiesa, “titolare” della liturgia e dei culti contro la pandemia, ne subì pesantemente le conseguenze. La vita in comunità di preti, monaci, chierici, ma anche l’assistenza agli infetti rendevano il clero particolarmente vulnerabile. Le precauzioni igieniche e comportamentali cui doveva attenersi allentarono attività pastorali, studio, formazione e preparazione religiosa. Ricomparvero i “pellegrini danzanti”, che invocavano la protezione divina flagellandosi nelle processioni. Il Trecento si chiuse con la peggiore infezione del secolo dopo la peste nera, forse introdotta in Italia proprio dai flagellanti francesi. Le epidemie del XIV secolo determinarono comunque una svolta nella storia dell’Europa occidentale, provocando cambiamenti strutturali sul piano demografico ed economico. In Inghilterra tra la metà del XIV e il XVI secolo, circa 1300 realtà urbane vennero abbandonate.

Durante la pandemia pestifera del 1894-1899, il medico svizzero francese Alexander Emile Jean Yersin (1863-1943), contemporaneamente a Shibasaburõ Kitasato (1853-1931), isolò ad Hong Kong il bacillo della peste, che fu chiamato “Pasteurella pestis” (oggi “Yersinia pestis”): prosperava nelle pulci ospiti di ratti infettati da roditori selvatici. Probabilmente la specie originaria dei “ratti pestiferi” viveva in India e giungeva in Europa attraverso i traffici marittimi. Le autorità cittadine cercavano di fronteggiare l’emergenza con ordinanze che limitavano la libertà di movimento e con rigidi regolamenti igienico-sanitari. Si cominciava con l’isolare le zone infette cacciando i soggetti ritenuti portatori del morbo, in primis ebrei e stranieri, ma anche prostitute e vagabondi. Inoltre, si eliminava ogni fonte di cattivo odore con la sistematica (e positiva) raccolta di avanzi e rifiuti, falcidiando però il reddito e l’occupazione di cuoiai, conciatori, macellai, pescivendoli, becchini.

Durante le epidemie i medici prescrivevano per lo più diete e stili di vita più sobri, l’eliminazione di luoghi umidi e paludosi, l’abolizione della licenziosità sessuale e dell’accattonaggio. Ma quelli che meglio curavano i malati erano i cerusici: incidevano i bubboni, praticavano salassi mediante le sanguisughe, lenivano le ferite con i medicamenti allora disponibili. Tuttavia, essendo ignota l’eziologia del morbo, non vennero mai adottate misure efficaci contro i ratti e gli altri animali infestati dalle pulci. Le principali misure preventive restavano la sorveglianza all’ingresso delle città, la quarantena per i contagiati, la spedalizzazione e la costruzione dei lazzaretti. Nel 1488 Milano si dotò di un lazzaretto costruito come un chiostro, con cortile centrale circondato da edifici; seguirono Genova e Firenze, poi Napoli e Roma e altre città. Solo nel 1600 anche i centri più piccoli ebbero consigli, funzionari ed operatori impiegati a tempo pieno in ambito sanitario.

La peste comportava spese enormi per le indagini ambientali e cliniche, per sanitari e magistrati, per gli stessi spazi di cura, che i bilanci pubblici non sempre erano in grado di sostenere. Da qui l’imposizione di nuove gabelle e tasse che suscitavano crescenti malumori tra le popolazioni. Per altro verso, la medicina del tempo dipendeva strettamente dai farmaci di natura vegetale: ruta, rosmarino, cipolla, aceto, assenzio e oppiacei. I medici chimici, disprezzati da quelli di formazione filosofica, raccomandavano anche amuleti di vario tipo contenenti arsenico, stagno e mercurio. Il veleno doveva far uscire il morbo venefico in base al principio che “i simili si attraggono”. Stravaganti ingredienti -quali limatura di zoccoli di cavallo, corallo, occhi e chele di granchio, olio di scorpione- erano utilizzati per un impiastro da applicarsi direttamente sul bubbone. Nei lazzaretti le morti erano più frequenti delle guarigioni e l’alto numero dei decessi imponeva sepolture rapide in fosse comuni e molto profonde, per evitare che i miasmi prodotti dalla decomposizione dei cadaveri contaminassero l’aria attorno alle tumulazioni.

La peste del 1630, celebre per essere stata immortalata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi e nella Storia della colonna infame, flagellò le maggiori città italiane ed europee con particolare virulenza. Gli storici concordano nel ritenere come concausa la grave crisi economica degli anni immediatamente precedenti, accompagnata dal drastico calo delle nascite, dovuto a sua volta al generale stato di malnutrizione. Poco tempo prima, una terribile carestia aveva infatti colpito il Nord Italia e i borghi vennero presi d’assalto da vagabondi e mendicanti. Alcuni demografi considerano la peste del 1630 come una sorta di spartiacque nella storia d’Italia: essa, infatti, mentre le epidemie antecedenti avevano sostanzialmente risparmiato le campagne e decimato le fasce più povere della popolazione urbana, imperversò in maniera indiscriminata nell’intera penisola e in tutte le classe sociali. La produzione manifatturiera ne risultò gravemente danneggiata, proprio in una fase di aspra competizione con l’Olanda e le economie nord-europee.

Le principali misure igienico-sanitarie per contenere le pestilenze erano state messe a punto in Inghilterra dal Royal College of Physicans fin dal 1578: purificare l’aria, gli oggetti infetti e le abitazioni con profumi e fumigazioni; cambiare frequentemente abiti e biancheria; lavare a fondo o bruciare gli abiti usati per lungo tempo; utilizzare in dosi massicce la ruta e l’assenzio. Nel 1665 la peste devastò Londra, che allora contava mezzo milione di abitanti. I decessi furono centomila, nonostante i provvedimenti messi in campo: pulizia dei canali di scolo, rimozione degli odori cattivi provenienti dai residui di granoturco e pesce e dalla concia; divieto di esporre e vendere vestiti usati. I cittadini più poveri rimasero in città, i più facoltosi si rifugiarono in campagna con scorte di fumiganti a base di rari e costosi ingredienti composti da zolfo, salnitro, ambra, luppolo, pepe e incenso.

Quella del 1665 fu l’ultima peste di Londra; poi, per cause ignote, il killer scomparve dal suolo inglese. Contribuì forse il grande incendio della metropoli nel settembre del 1666. La città fu riedificata in mattoni e pietra e dotata di un efficiente sistema fognario. Con il Seicento finiscono le grandi pestilenze, eccetto una coda devastante a Marsiglia nel 1720.

 

 

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