skip to Main Content

Pestilenze

La peste del 1348 e la sindrome dell’untore

Il Bloc Notes di Michele Magno

Nell’autunno del 1347, dodici galere genovesi provenienti da Costantinopoli sbarcarono a Messina. In mezzo alle merci conservate nelle stive c’erano topi portatori del bacillo della peste. Dopo quasi sei secoli il flagello tornava in Occidente. Dalla Sicilia si diffuse rapidamente in tutto il Vecchio continente, sterminando un terzo della sua popolazione. Che si sia cercato allora di attribuire agli ebrei la responsabilità dell’epidemia, è noto. Meno note, forse, sono la geografia e la cronologia della persecuzione, da cui emerge quell’intreccio tra spinte dal basso e interventi dall’alto che portò a identificare nei giudei i colpevoli della pestilenza. Alla sua ricostruzione Carlo Ginzburg ha dedicato pagine magistrali in una delle sue ultime, monumentali, ricerche (“Storia notturna. Una decifrazione del sabba”, pp. 41-61, Adelphi, 2017).

Il primo scoppio di ostilità contro gli ebrei avvenne nella notte tra il 13 e 14 aprile 1348, domenica delle Palme: il ghetto di Tolone fu invaso; le case saccheggiate; circa quaranta persone, tra uomini, donne e bambini, massacrate nel sonno. Poco dopo, in varie località della Provenza si verificarono diversi episodi di aggressione, spesso sanguinose, contro le comunità ebraiche. L’ondata raggiunse il culmine il 16 maggio a La Baume, dove tutti gli ebrei vennero uccisi. Negli stessi giorni, a Barcellona un banale incidente trasformò il funerale di un appestato in un massacro degli ebrei.

La paura del complotto si era quindi già manifestata, con le sue prevedibili conseguenze: il morbo si propagava perché c’era chi spargeva polveri e pozioni, oppure per altri motivi? A Narbonne e in altre città erano stati catturati poveri e mendicanti provvisti di polveri che spargevano nelle acque, nei cibi, nelle case e nelle chiese per diffondere la morte. Alcuni avevano confessato spontaneamente, altri sotto tortura, di aver ricevuto somme di denaro da individui di cui ignoravano il nome: da qui il sospetto che gli istigatori fossero nemici del regno di Francia. Ma in una lettera scritta dal vicario del visconte di Aymeric, signore di Narbonne, si adombra l’ipotesi che la peste fosse stata provocata da cause naturali, ossia dalla congiunzione in atto dei due pianeti dominanti, Giove e Marte.

In realtà, come risulta anche dalle testimonianze di medici e cronisti dell’epoca, le due interpretazioni sono perfettamente conciliabili: la causa del morbo era attribuita agli astri, all’inquinamento dell’aria e delle acque; la sua diffusione al contatto fisico. Ma riconoscere che le acque avvelenate avevano contribuito all’origine della pestilenza significava richiamare le voci di trent’anni prima, quando una terribile carestia — insieme al progressivo affermarsi di un’economia monetaria — avevano rinfocolato l’odio nei confronti degli ebrei prestatori di denaro. In più parti d’Europa, ormai, essi erano accusati di avvelenare i pozzi, di praticare omicidi rituali, di profanare l’ostia consacrata. Uguale sorte era toccata ai “fetidi” lebbrosi: “Guardati dall’amicizia di un folle, di un ebreo o di un lebbroso”, si leggeva in un’iscrizione sulla porta del cimitero parigino dei Santi Innocenti.

Nel 1321 non c’erano state epidemie: la paura di essere contagiati dalla lebbra era bastata a scatenare la persecuzione, debitamente guidata dalle autorità politiche e dai ceti mercantili ansiosi di impadronirsi delle ricche rendite amministrate dai lebbrosari. Nel 1348 la peste dilagava, la gente moriva come mosche. Individuare dei responsabili umani dava l’illusione di poter fare qualcosa per fermare l’epidemia. In decine di città situate lungo il Reno o nella Germania centrale e orientale, si ebbero così roghi e stragi di ebrei. Le analogie tra le due ondate di violenza sono evidenti: nell’arco di un trentennio l’ossessione del complotto ordito dai discendenti di Abramo si era sedimentata nella mentalità popolare.

Il 4 settembre 1409, papa Alessandro V inviò da Pisa una bolla diretta al francescano Ponce Fougeyron, che esercitava le funzioni di inquisitore generale in una zona molto vasta, comprendente le diocesi di Avignone, Ginevra e Aosta, il Delfinato, il Contado Venassino (regione della Francia sudorientale). La bolla lamentava che in questi territori alcuni cristiani, in combutta con i perfidi giudei, avevano fondato nuove sètte che praticavano riti proibiti contrari alla religione cristiana: stregonerie, divinazioni, invocazioni del demonio, arti malvagie che pervertivano molti ingenui cristiani; ebrei conversi che cercavano di insegnare il Talmud e altri libri della loro legge; infine, cristiani ed ebrei i quali sostenevano che l’usura non era peccato. Nei loro confronti era necessaria la massima vigilanza, concludeva il pontefice.

In questo elenco di capi d’accusa molto variegato, s’intravede — osserva Ginzburg — un fitto tessuto di scambi culturali e sociali tra comunità religiose diverse, in un’area in cui era confluita gran parte degli ebrei cacciati dalla Francia. A questa pericolosa contiguità, con possibili deviazioni sincretistiche, Alessandro V cercava di porre un freno. Del resto, già nella seconda metà del Trecento le valli sul versante italiano delle Alpi occidentali erano state teatro di una vera e propria offensiva contro gruppi consistenti di eretici. Il nome con cui venivano chiamati — Valdesi — li identificava come tardivi seguaci della predicazione religiosa condotta da Pietro Valdo (o Valdés) due secoli prima.

Si tratta di processi celebrati dall’Inquisizione, attorno al 1380, contro artigiani, contadini e piccoli commercianti (sarti, calzolai, osti). Le loro confessioni rispecchiano anzitutto credenze radicate da lungo tempo nei gruppi eterodossi: la polemica contro la gerarchia ecclesiastica corrotta, il rifiuto dei sacramenti e del culto dei santi, la negazione del Purgatorio. Nel giro di pochi decenni Valdesi, Catari (da “cattus”, perché adoratori del diavolo in forma di gatto) o più genericamente eretici, diventarono sinonimi di “partecipanti ai convegni diabolici.

La strada della letteratura demonologica sul sabba era aperta. Tra i suoi incunaboli, sottolinea Ginzburg, c’è un testo più citato che letto: il “Formicario” (1435-1437). Il suo autore, il domenicano tedesco Johannes Nider, insiste molto sulla descrizione dei malefizi — per così dire — tradizionali: da quelli volti a procurare la malattia e la morte, a quelli usati per procacciarsi l’amore femminile. Ma nel suo scritto si affaccia anche l’immagine ancora sconosciuta di una setta di streghe e stregoni, ben distinta dalle figure isolate di “malefiche” o incantatori presenti nei racconti penitenziali del Medioevo.

Alcuni elementi essenziali di quello che diventerà lo stereotipo del sabba sono già presenti: l’omaggio a Satana, l’abiura di Cristo, la profanazione della croce, i bambini divorati. Altri elementi non meno importanti invece mancano, o vi compaiono solo di sfuggita: le metamorfosi animalesche, il volo magico, i raduni notturni con il loro contorno di banchetti e di orge sessuali. Tuttavia, dopo i lebbrosi, gli ebrei, i poveri e mendicanti, era ormai arrivato il turno degli stregoni e delle streghe: saranno loro i nuovi protagonisti del complotto contro la società cristiana.

Back To Top