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Meritocrazia

Noterelle malmostose sul 25 aprile

Il 25 aprile 1945 non fu forse proprio la ribellione di pochi a determinare la libertà di tutti? Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Oggi si celebrerà in tono minore e con un filo di mestizia, senza cortei e comizi nelle piazze, ma bisogna dire lo stesso le cose come stanno: il 25 aprile non è mai stata la festa di tutti gli italiani. Al contrario, spesso è stata vissuta come un derby tra opposte tifoserie: fascisti contro antifascisti, destra contro sinistra, cattivi contro buoni. La verità è che, dopo settantacinque anni dall’insurrezione che liberò il nord del paese, non abbiamo ancora una memoria condivisa del significato di quel giorno, anche perché non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo col nostro passato.

L’anno scorso l’ex ministro degli Interni Matteo Salvini preferì trascorrerlo a Corleone per inaugurare un commissariato di polizia, sostenendo che la vera liberazione dell’Italia era quella dalla mafia. Quest’anno, invece, un noto parlamentare e dirigente del partito di Giorgia Meloni ha proposto di trasformarlo in una festa della concordia nazionale, in cui onorare le vittime di tutte le guerre (comprese quelle della pandemia). Un’idea singolare quanto sospetta, tanto più se si considera che il rovello della concordia nazionale non sembra invece essere di moda nella lotta contro il coronavirus. Ma qual è l’origine dell’ostilità di una parte ragguardevole degli italiani verso quella data?

Ha scritto Filippo Focardi in un aureo volume di cui sono debitrici queste note (“Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale”, Laterza, 2014), che Benedetto Croce è comunemente noto come l’inventore della tesi del fascismo come “intossicazione” passeggera, come parentesi di una storia che vantava nobili tradizioni: la civiltà latina, l’umanesimo rinascimentale, il Risorgimento liberale. Croce vi contrappose l’interpretazione del nazismo come rivelazione di una storia millenaria della Germania, che affondava le sue radici addirittura all’epoca della sconfitta inflitta, nella foresta di Teutoburgo, dalle tribù germaniche di Arminio alle legioni di Quintilio Varo (9 d.C.), causa della mancata romanizzazione dei “barbari”. Una storia caratterizzata dal culto della forza e dell’obbedienza incondizionata all’autorità. Un diverso retroterra in cui si rispecchiava, quindi, la diversa propensione criminale dei due regimi, assai più marcata e devastante nel caso del nazismo.

Quelle di Croce — sottolinea Focardi — non erano le riflessioni distaccate di un intellettuale. Vi era sottesa l’esigenza di tutelare il futuro dell’Italia sconfitta. Non fortuitamente, infatti, egli le espose in esortazioni di natura politica, rivolte agli Alleati, come nell’importante intervento fatto a Roma nel settembre 1944, in cui chiese che l’Italia non fosse punita per la guerra perduta e fosse anzi ammessa come alleata di pari grado fra i vincitori che dovevano stabilire le condizioni della futura pace europea. Croce allora asserì con forza che non si poteva porre l’Italia dei Comuni e di Cavour sullo stesso piano della Germania di Bismarck, di Guglielmo II e di Hitler.

La tesi sulle diverse origini storiche del fascismo e del nazismo fu condivisa dalla cultura cattolica, secondo la quale il fascismo non aveva espresso le proprie potenzialità totalitarie grazie agli anticorpi creati dalla tradizione cristiana, diametralmente opposta al “neopaganesimo razzista” del Führer. E fu condivisa, pur con argomenti e accenti diversi, anche dai socialcomunisti e dagli azionisti. A differenza delle forze moderate, le sinistre non avevano esitato a denunciare i crimini commessi dalle truppe italiane, addebitandoli però unicamente alle camicie nere e ad alcuni ufficiali dell’esercito fanatici e crudeli, che avrebbero agito per “imitare” i tedeschi. Il tragitto del soldato comune da “occupante a partigiano” venne pertanto descritto con grande indulgenza, ingigantendo la scelta che solo una minoranza coraggiosa di militari aveva compiuto all’indomani dell’8 settembre 1943.

La contrapposizione tra fascismo e nazismo fu ripresa anche dalla stampa che osteggiava l’antifascismo militante ereditato dal Comitato di liberazione nazionale, come il quotidiano della capitale Il Tempo di Renato Angiolillo, portavoce di ambienti — specialmente meridionali — nostalgici del Duce, a cui si imputava più che altro l’errore di essersi compromesso con un alleato sbagliato, e di aver così perduto la guerra. Tra i principali esponenti di questo orientamento spicca la figura di Indro Montanelli. Dal libro “Il buonuomo Mussolini” (1947) fino ai corsivi nella rubrica sul Corriere della Sera (“La stanza di Montanelli”), il giornalista toscano ha raccontato il fascismo come un regime blando, un autoritarismo bonario e paternalista, non privo di alcuni meriti presunti come il ristabilimento dell’ordine dopo le agitazioni operaie e contadine del “biennio rosso” (1919-1920), o come l’instancabile sforzo modernizzatore del paese, testimoniato dai “treni in orario”, dalle paludi bonificate, da impavidi sorvolatori atlantici.

Questa lettura del Ventennio è stata successivamente ripresa da Renzo De Felice, che ha elaborato nelle sue ricerche un modello comparativo fra fascismo e nazismo, mettendo in evidenza le distanze abissali fra i due fenomeni fino ad affermarne la “scissura completa”. Una lettura che ha riscosso grande successo, perché in sintonia e già ampiamente familiare alla maggioranza dell’opinione pubblica. Anche se sarà proprio un suo allievo, Emilio Gentile, a ricordare alcuni scritti poco noti in cui De Felice, correggendo precedenti posizioni, non misconosceva il carattere totalitario del regime.

Con i governi di centrodestra la riabilitazione strisciante del mussolinismo conosce una nuova stagione. Dopo il suo ritorno a Palazzo Chigi nel 2001, Silvio Berlusconi definisce l’ex socialista di Predappio un dittatore mite, che “non ha mai ucciso nessuno” e che “mandava la gente in vacanza al confino”. Mentre nel 2009, in un famoso discorso a Onna, cittadina simbolo del terremoto in Abruzzo, dichiara che era giunto il momento di  convertire la Festa della Liberazione in una Festa della Libertà. Pur essendo un discorso equilibrato, in cui tra l’altro il Cavaliere per la prima volta ammetteva esplicitamente il contributo decisivo dato dalla Resistenza alla nascita della democrazia repubblicana, fu sommerso da un mare di polemiche. Il governatore della Puglia, Nichi Vendola, lo liquidò seccamente come la professione di un “brutto revisionismo, puzzolente e melmoso”.

Eppure, a mio avviso, quel discorso avrebbe meritato una più pacata discussione per le sue implicazioni etico-culturali, più che per i suoi aspetti strettamente politici. Non sono infatti sicuro che la Libertà (con la maiuscola) possa essere considerata un valore, sia pure il più alto e irrinunciabile. Voglio subito tranquillizzare il lettore. Intendo dire che essa è condizione perché questa o quella libertà (con la minuscola) si dia. In tal senso, può decidersi per il bene come per il male, con sovrana indifferenza. Addirittura può rovesciarsi nell’atto che la nega o l’annulla. Insomma, la libertà — come ben sapeva il Dostoevskij lettore di Pascal — viene prima del bene e del male.

Attenzione, però. Perché, come ha scritto il filosofo russo Nikolaj Berdjaev, lo stesso Dostoevskij “più profondamente di ogni altro ha compreso che il male è figlio della libertà. Ma ha compreso pure che senza libertà non c’è il bene. Anche il bene è figlio della libertà. A ciò si ricollega il mistero della vita, il mistero del destino umano. La libertà è irrazionale e perciò può creare sia il bene sia il male. Ma ricusare la libertà per il fatto che può produrre il male, significa produrre un male ancora più grande” (“La concezione di Dostoevskij”, Einaudi, 2002). Da ciò si deduce che, per l’autore di “Delitto e castigo”, la libertà rappresenta le fondamenta dell’edificio umano, e che i suoi inquilini sono disposti a patire tutte le sofferenze che il mondo può infliggere pur di sentirsi liberi. Ciò vale non per tutti e non sempre, beninteso.

Tuttavia, il 25 aprile 1945 non fu forse proprio la ribellione di pochi a determinare la libertà di tutti?

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