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Anestesiologia

Non è vero che siamo nati per soffrire

Il Bloc Notes di Michele Magno

Ogni interpretazione della sofferenza che chiude gli occhi dinanzi alle vittime e s’identifica con una giustizia che dovrebbe stare dietro la sofferenza, è già in cammino verso il sadismo teologico che vuole intendere Dio come colui che tormenta (Dorothee Sölle).

Fin dall’antichità più remota, le pratiche della medicina e della chirurgia erano accompagnate da terribili sofferenze. Si trapanava un cranio per farne uscire il male, gli arti si amputavano, i tumori si asportavano e i denti si cavavano. Sempre a paziente sveglio, scalciante e urlante. Presso alcune civiltà trovava spazio qualche modesto rimedio: in Mesopotamia la compressione delle carotidi per provocare la perdita dei sensi  mediante ipossia; in Egitto la cosiddetta pietra di Menfi che, applicata in polvere o in impiastro sulla parte del corpo da tagliare o da bruciare, induceva un effetto analgesico. Secondo Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), la mandragora -o mandragola- aveva proprietà sedative. Probabilmente quell’erba era conosciuta anche da Ippocrate (460-370 a.C. circa), sebbene teorizzasse che il dolore lamentato dal paziente era indispensabile per la diagnosi esatta delle sue cause.

Intorno alla metà del Cinquecento, Paracelso coltivò le virtù analgesiche di una sostanza da poco inventata (1540). Il suo scopritore, Valerius Cordus, l’aveva chiamata olio dolce di vetriolo. Diventerà nota come etere dietilico, risultato della distillazione di una miscela di etanolo e acido solforico. Al geniale alchimista svizzero-tedesco si deve anche la scoperta del laudano, un’essenza stupefacente ottenuta lasciando macerare oppio in alcool. La sua formula venne perfezionata nella seconda metà del Seicento dall’inglese Thomas Sydenham e sfruttata, a seconda della composizione, come antidolorifico, come sedativo o come stimolante. Nell’Ottocento il laudano divenne molto popolare tra gli artisti “maledetti” (Baudelaire in testa) e tra i soldati americani durante la Guerra di secessione, per lenire il supplizio di ferite spesso incurabili. Tuttavia, come hanno scritto due illustri storici della medicina in un libro di cui è imminente la ristampa (e di cui sono debitrici queste note), ciascuna di queste sostanze veniva adoperata con finalità palliative, e non  per aggredire alla radice il dolore fisico. Cosa che avverrà grazie a due dentisti americani  (Massimo Fioranelli e Maria Grazia Roccia, Medici eretici, Laterza, 2016).

Il primo, Horace Wells, il 10 dicembre 1844 viene trascinato dalla moglie a una fiera di paese nella contea di Windsor, nel Vermont. Ci sono il forzuto, il nano, la donna cannone, il tiro a segno. In un baraccone viene presentato un numero nuovo, che altrove aveva già fatto furore. Consisteva nel far inalare a un volontario una dose di “laughing gas”. Questo gas, incolore e dal lieve sapore dolciastro, produceva un effetto assai simile all’ebbrezza etilica, sicché l’incauto spettatore, una volta inalatolo, comincia a ridere senza motivo e a dire sciocchezze, barcolla e infine rovina su una panchina fratturandosi uno stinco. Ma si rialza immediatamente e continua imperterrito a saltellare. Wells è l’unico a non divertirsi. È letteralmente sbalordito dalla scena. Pensa che possa trattarsi di un effetto collaterale del gas, e non sbagliava.

Il gas esilarante è il nome volgare del protossido di azoto, scoperto nel 1772 dal chimico inglese Joseph Priestley, celebre per aver isolato l’ossigeno. Il suo connazionale Humphrey Davy, l’inventore della lampada di sicurezza dei minatori, due decenni dopo aveva provato su di sé il suo potere analgesico, ma non  aveva  immaginato altri possibili usi al di fuori di quello personale. Wells non è così miope. Decide di sperimentarlo su un suo paziente in una mattina d’autunno del 1845: nemmeno un gemito durante l’estrazione di un molare marcio. Al colmo dell’eccitazione, si rivolge al vecchio amico e collega William Morton affinché lo aiuti a divulgare una scoperta che poteva cambiare il destino della medicina e della chirurgia. L’odontoiatra di Charlton, infatti, godeva di buoni contatti con il più importante ospedale di Boston. Non gli è difficile, quindi, organizzare una pubblica dimostrazione in una sala della Harvard Medical School. Sfortunatamente, la cavia prescelta è un uomo grasso e grosso, che viene invitato a inalare il protossido d’azoto. Appena è sotto i ferri, inizia a urlare come un ossesso. Scoppia un putiferio. Il pubblico presente grida all’imbroglio, e il povero Wells viene cacciato tra i fischi come un cane rognoso e torna nella natia Hartford in preda alla disperazione più cupa. È incapace di comprendere il motivo di quel fallimento vergognoso. Perché non possedeva gli strumenti scientifici e intellettuali per intuire ciò che a noi oggi pare ovvio, e cioè che la quantità di anestetico va commisurata a peso corporeo del paziente e alla sua sensibilità individuale.

Solo Morton capisce che il suo amico, nonostante la figuraccia, aveva aperto una via che poteva rivelarsi rivelarsi rivoluzionaria. Opta però per l’etere dietilico, seguendo gli insegnamenti ricevuti dal professor Charles Jackson all’Università. Poiché, a temperatura ambiente, l’etere dietilico si presenta allo stato liquido, ne imbeve una spugna che infila successivamente in una bottiglia dal collo stretto; ne aspira i vapori e verifica così la bontà della sua idea. Il 30 settembre 1846 entra nel suo studio un commerciante, Eben Frost, per farsi estrarre due denti guasti. Senza perdere tempo, Morton estrae dalla tasca un fazzoletto, lo intinge nel liquido e lo posiziona sotto il naso del suo terrorizzato paziente, che subito si addormenta per i pochi minuti necessari all’intervento. Il 18 ottobre, nello stesso anfiteatro che aveva visto la disfatta di Wells, il primario chirurgo Warren asporta un tumore al signor Edward Abbot anestetizzato con etere dietilico. A imperitura memoria di una conquista storica per l’umanità, l’anfiteatro dell’ospedale verrà chiamato “Ether Dome” (Cupola dell’etere), visitabile anche oggi.

Nel novembre 1846 un articolo del Boston Medical Journal racconta l’impresa con toni entusiastici. Le reazioni dei lettori, invece, sono discordanti. Alcuni esprimono ammirazione e stupore, altri accusano l’anestesia di essere opera del Maligno, che si era impossessato dell’anima del malcapitato Abbot. Altri ancora chiedono informazioni sulla sostanza usata, perché Morton, nel comunicare la sua incredibile scoperta, aveva  scaltramente omesso di menzionare l’etere dietilico, da lui ribattezzato -e brevettato- col nome di “letheon” e si era rifiutato di rivelarne la composizione. Insomma, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire un affare che prometteva lucrosi guadagni, e tantomeno a dividerne i meriti con Wells. Quest’ultimo, allora, ingaggia una lunga battaglia legale affinché gli venga riconosciuta la paternità della scoperta. Ignorato da tutti, si traferisce in Francia, dove apprende che in Europa si era ormai imposto l’uso del cloroformio per il parto indolore. Dopo pochi mesi torna in patria e si stabilisce a New York. È drogato fino alla punta dei capelli e ha perso completamente il senno. Il 24 gennaio 1848 si recide l’arteria femorale sinistra e muore dissanguato. Per ironia della sorte, anche Morton muore a New York, ma per un colpo di calore, in una torrida estate del 1868.

Come già accennato, nonostante i suoi innegabili successi, l’anestesia non riceve accoglienze trionfali. Molti medici la usano, molti sono perplessi o fieramente contrari, considerandola un capriccio da smidollati. I ceti popolari la vedono come una specie di stregoneria, mentre tra i giovani delle classi più abbienti si diffonde la moda dei festini “all’etere”. Il dibattito si infiamma quando le varie confessioni religiose prendono posizione; ed è una posizione generalmente avversa, laddove si proclama la necessità del dolore come punizione divina o come espiazione del peccato. Anche la chiesa anglicana si oppone alle pratiche anestetiche, ma viene platealmente smentita dal suo stesso Capo, quella regina Vittoria che nel 1853, giunta all’ottavo parto e stufa di soffrire, ordina al dottor John Snow di sedarla con il cloroformio. La sovrana replicherà l’esperienza nel 1857, quando dà alla luce Beatrice, la sua ultima figlia. Per questa ragione il parto indolore sarà anche chiamato il “parto della regina”. Per altro verso, nel 1892 Carl Schleich comunica alla Società tedesca di chirurgia i risultati  positivi della sue ricerche sull’anestesia locale, ottenuta mediante l’infiltrazione di cocaina in soluzione altamente diluita. La sua relazione viene accolta da una sconcertante alzata di scudi. Di fronte a uno sbalordito Schleich, l’assemblea dei partecipanti, immemori del motto galileiano secondo cui “le verità scientifiche non si decidono a maggioranza”, pretende addirittura che si metta ai voti il lavoro del primario di chirurgia dell’ospedale Lichterfelde di Berlino. Di lì a poco, comunque, l’anestesia locale diventerà una pratica del tutto normale, sia pure abbandonando la cocaina per altri alcaloidi anche sintetici. Negli ambienti medici favorevoli all’anestesia emerge, nel contempo, un nuovo contrasto sulla scelta della sostanza in grado di garantire minori danni all’organismo e effetti collaterali più lievi. Come osservano Fioranelli e Roccia, fino all’inizio del Novecento gli europei propendono per il cloroformio e gli americani per l’etere. In seguito, data la particolare tossicità e la persistente tendenza a scatenare aritmie cardiache, il cloroformio sarà sostituito dall’etere, mentre tornerà in auge il protossido d’azoto fino agli ultimi decenni del secolo passato.

Ai nostri giorni l’anestesiologia ha compiuto progressi tali da far impallidire anche i suoi più granitici sostenitori di oltre un secolo addietro, che ebbero tuttavia il merito di non cedere ai ricatti, all’incompresione e ai pregiudizi delle baronie accademiche. Proprio negli stessi anni di Wells e Morton, l’ungherese Ignác Semmelweis stava gettando le basi dell’antisepsi, circondato dallo scetticismo della “Scuola viennese” di medicina. Solo Louis Pasteur nel 1879 e Joseph Lister nel 1883 avrebbero dimostrato la grandezza delle intuizioni di Semmelweis nella prevenzione dei contagi batterici e per ridurre drasticamente la micidiale febbre puerperale nelle cliniche ostetriche attraverso l’igiene delle mani (per questo fu soprannominato “il salvatore delle madri”).

A questo punto, vale la pena citare un episodio forse colpevolmente dimenticato. Nell’ottobre 1956 i medici anestesisti italiani, riuniti in congresso, rivolgono a Papa Pio XII tre quesiti riguardanti la compatibilità della narcosi con la legge naturale e con la dottrina cattolica; ovvero se esisteva l’obbligo morale di rifiutare l’analgesia, se la privazione della coscienza provocata dai narcotici contraddiceva lo spirito del Vangelo, e se essi si potevano utilizzare anche di fronte al rischio di accelerare il decorso mortale del malato. Le risposte del pontefice, che pure era ritenuto vicino all’ala più conservatrice della Curia, furono sorprendenti. Infatti, in un lungo discorso (febbraio 1957) affermò con forza la liceità del ricorso ai narcotici in tutti i casi, anche — e poteva essere il caso dei malati terminali — quando la loro somministrazione poteva accelerare il commiato di un’esistenza già irrimediabilmente compromessa. Pio XII aggiunse: “L’uomo conserva, anche dopo la caduta, il diritto di dominare le forze della natura, di utilizzarle al proprio servizio, di mettere dunque a profitto tutte le risorse che essa gli offre per evitare o sopprimere il dolore fisico”. Queste parole segnavano un pietra miliare nella storia della terapia del dolore e dell’utilizzo degli oppiodi nelle cure palliative. Parole che però Papa Benedetto XVI ha ritenuto necessario ribadire nel 2008 alla Società italiana di anestesiologia (mezzo secolo dopo!).

Non è poi vero, insomma, che “siamo nati per soffrire”, anche se un nostro sommo letterato ne era certo: “Quindi primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure […]; e parte eziandìo con intendimento di rompere e mansuefare la ferocia degli uomini, ammaestrarli a piegare il collo […] e rintuzzare negli animi affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai travagli propri, l’acume e la veemenza del desiderio (Giacomo Leopardi, Storia del genere umano, in Operette morali). Queste riflessioni sconsolate del poeta recanatese aiutano a capire quanto sia stata trasgressiva la lotta contro il dolore della anestesiologia moderna. Perché voleva opporsi al sacrificio salvifico di Cristo e alla sua promessa di redenzione? Sicuramente no. Si prefiggeva semplicemente di migliorare la qualità della vita individuale e, con lei, della società intera. Non è poco, mi sembra.

 

*Il Foglio

 

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