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Morire di spyware nell’Arabia Saudita di bin Salman. Tutte le novità sul caso Khashoggi

L'approfondimento di Marco Orioles

Morire di spyware. È quanto sarebbe accaduto, secondo un dissidente saudita, a Jamal Khashoggi, il giornalista ucciso lo scorso 2 ottobre in un blitz al consolato saudita di Istanbul condotto da uomini dell’entourage di Mohammed bin Salman e voluto, secondo la Cia, proprio dal principe ed erede al trono.

Omar Abdulaziz vive oggi in Canada, dove ha ottenuto asilo politico. Nella sua nuova patria, Abdulaziz porta avanti la sua battaglia per liberare l’Arabia Saudita dal pugno di ferro della casa Saud. Le sue idee lo avevano condotto a collaborare con Khashoggi, uomo di punta della dissidenza saudita.

Abdulaziz e Khashoggi coltivavano un progetto: mettere in piedi una rete di attivisti digitali per contrastare la potente fabbrica di troll di Riad, gestita da un uomo molto vicino a bin Salman. Per coordinarsi, i due usavano Whatsapp, scambiandosi messaggi scritti e vocali.

Ed è proprio qui che sarebbe intervenuto “Pegasus”, lo spyware messo a punto da un’azienda israeliana, la NSO. Si tratta di un potente strumento informatico che fa breccia nei dispositivi mobili e mette chi controlla il software nelle condizioni di operare una capillare sorveglianza in remoto delle comunicazioni effettuate dall’utente. Acquistando questa tecnologia dalla NSO, l’Arabia Saudita sarebbe stata in grado di penetrare le conversazioni di Khashoggi e Abdulaziz, venendo a conoscenza del loro piano.

Abdulaziz, oggi, è convinto che le incursioni condotte dall’Arabia Saudita nei confronti suoi e di Khashoggi siano state determinanti nella scelta di Riad di eliminare il secondo. Per questo, ha presentato una denuncia al tribunale di Tel Aviv con la quale accusa la NSO, e il governo israeliano che le ha fornito la licenza di export, di collaborare con i governi più repressivi del pianeta nella soppressione del dissenso.

Nella denuncia, Abdulaziz riferisce di aver cliccato nel giugno di quest’anno su un link sospetto inviato alla sua casella di posta elettronica. Da quel momento, il suo cellulare sarebbe finito sotto il controllo del governo saudita e sarebbero iniziate le molestie nei suoi confronti da parte delle autorità del regno. Soprattutto, grazie a Pegaus, Riad sarebbe penetrata negli scambi tra Abdulaziz e Khashoggi: e questo, secondo il dissidente, avrebbe rappresentato il “fattore cruciale” dietro la scelta dei sauditi di liquidare il columnist del Washington Post.

L’avvocato di Abdulaziz, Alaa Mahajna, fa sapere che l’iniziativa giudiziaria del suo assistito vuole mettere in luce come la NSO metta a disposizione di “stati dittatoriali” una potente tecnologia attraverso la quale si effettuano operazioni spionistiche a danno di dissidenti, giornalisti e attivisti dei diritti umani. Il caso Khashoggi sarebbe infatti solo quello più noto: Pegasus sarebbe stato utilizzato per intercettare giornalisti messicani e qatarini e un attivista di Amnesty International, che hanno già sporto denuncia nei confronti della NSO.

Nella denuncia di Abdulaziz, si riferisce come l’Arabia Saudita abbia acquistato Pegasus dalla NSO nel 2017 per un valore di 55 milioni di dollari. Emerge, inoltre, come il dissidente abbia saputo che le sue comunicazioni erano intercettate grazie a Citizen Lab, organizzazione civica che si occupa della salvaguardia della libertà delle comunicazioni in rete.

La NSO ha ribattuto alle accuse di Abdulaziz rilasciando un comunicato che le definisce “completamente infondate” oltre che basate su “ritagli di stampa”. Non ci sarebbero prove, secondo l’azienda, che le sue tecnologie siano state effettivamente impiegate per compiere simili operazioni. “Assumiamo”, recita il comunicato, “un approccio estremamente scrupoloso nell’autorizzare i nostri prodotti – i quali sono forniti solo dopo un pieno controllo e l’autorizzazione del governo israeliano”. I prodotti di NSO, argomenta ancora la compagnia israeliana, “sono autorizzati per il solo scopo di fornire ai governi e alle agenzie di law enforcing la capacità di combattere legalmente il terrorismo e il crimine nell’era moderna”. La NSO, inoltre, non collaborerebbe con i suoi clienti, che sono quindi i soli responsabili di un eventuale uso spregiudicato della tecnologia acquistata. “Non tolleriamo”, conclude il comunicato, “l’abuso dei nostri prodotti. Se c’è il sospetto di abusi, noi li indaghiamo e prendiamo le contromisure appropriate, inclusa la sospensione o la cancellazione dei contratti”.

In un dispaccio diffuso ieri, Associated Press fa parlare una persona che è al corrente delle attività di NSO. Secondo questa fonte, l’azienda metterebbe in campo dei meccanismi di salvaguardia da eventuali usi impropri dei propri prodotti. Ad esempio, sono previste restrizioni sui paesi che Pegasus può prendere di mira e anche dei limiti al numero di target. Inoltre, sempre secondo la fonte, la compagnia avrebbe deciso di non cooperare con almeno 21 paesi, tra i quali Russia, Cina e Turchia, rispettando in ciò le direttive del ministero della Difesa. NSO avrebbe addirittura un “comitato etico” che include esperti di diritti umani ed ex funzionari governativi americani cui spetta il compito di valutare ogni affare: negli ultimi tre anni, il comitato avrebbe bloccato contratti per un valore di cento milioni di dollari.

Interpellato sulla vicenda, il ministero della Difesa di Gerusalemme sostiene di essere “meticoloso” nel garantire le licenze di export, respingendo così le accuse, rivoltegli da Abdulaziz, di collaborare con governi stranieri autoritari. Ma è chiaro che il caso Pegasus mette in imbarazzo il governo israeliano in una fase storica in cui le relazioni tra lo Stato ebraico e l’ex nemico saudita si stanno intensificando. La denuncia presentata da Abdulaziz rappresenta, in questo senso, il mezzo ideale per agitare le acque di un rapporto che, se promette di cambiare la faccia del Medio Oriente, può cementare una collaborazione che a molti appare inopportuna. E che, secondo l’accusa di Abdulaziz, ha già mietuto un morto illustre: Jamal Khashoggi.

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