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Meno zucchero e meno barbieri: due curiosi disegni di legge di Pd e Lega

La lettera di Michele Magno

Caro direttore,

stia tranquillo. Questa volta non intendo annoiare i lettori parlando di salari e pensioni, occupazione e produttività, riforma della magistratura e manovra di bilancio. E tanto meno di Israele e Ucraina, guerra e pace, antisemitismo e crisi delle democrazie liberali. Questa volta mi piace commentare due fatti sicuramente di scarsa importanza, che tuttavia -a mio avviso-  raccontano in controluce la cultura economica dei due schieramenti che si fronteggiano nel Parlamento italiano.

Il primo fatto risale a cinque mesi fa. Il giorno dopo la scoppola -pardon, il trionfo- del referendum sul lavoro (10 giugno), e poche ore prima della resa dei conti tra Israele e Iran, il Pd che ti fa? Ti scodella una proposta di legge, prima firmataria l’on. Eleonora Evi (con il prezioso contributo dell’on. Marco Furfaro), per limitare il consumo degli zuccheri. In che modo? Con una sugar tax “a scaglioni”, come se il temuto carboidrato fosse un contribuente da tassare con l’Irpef. Nella conferenza stampa di presentazione, l’analisi del “capitalismo glicemico” è stata affidata al Marx della materia, alias Franco Berrino, novax e oggi guru del “salutismo esoterico”, convinto che la carne sia più cancerogena del fumo.

Accanto a lui, la Rosa Luxemburg del dimagrimento rapido, alias Nataliya Gera, autrice di “Intensive 21”, un vademecum per perdere peso in tre settimane (erede naturale del “Sette chili in sette giorni” di Verdone e Pozzetto). Ma il punto più interessante di tutta la faccenda è un altro. Il disegno di legge del Pd, infatti, si prefigge di scoraggiare chi consuma gli zuccheri, non chi li utilizza nei propri prodotti. Meno marmellata e meno gazzose, insomma, e l’intendenza seguirà. Abbandonata l’egemonia culturale, si tenta con quella alimentare. Del resto, dove non servono le alleanze non servono nemmeno le idee: basta solo un’etichetta. È la sinistra al suo stadio terminale: non più “pane e lavoro” ma crackers integrali e “avocado fair trade” (commercio equo e solidale di avocado).

Il secondo fatto, invece, risale a pochi giorni fa. Come Sansone, l’Italia ha la sua forza economica nei capelli: o, almeno, devono pensarla così i deputati che, col capogruppo leghista Riccardo Molinari, hanno proposto un disegno di legge per arginare la “liberalizzazione indiscriminata” di parrucchieri e barbieri. Solo rendendo più difficile il taglio, quindi, potremo tornare a occupare la posizione che ci meritiamo nel mondo.

Il provvedimento prevede il “contingentamento progressivo del numero di abilitazioni professionali” per le attività di “acconciatore, barbiere e parrucchiere che possono essere conseguite in ciascun Comune, al fine di tutelare la concorrenza leale, garantire l’equilibrio dell’offerta sul territorio e incentivare la qualità professionale e l’innovazione”. A farsene carico dovrebbe essere il ministero delle Imprese e del Made in Italy, sulla base di un calcolo sulla densità di esercizi commerciali attivi (tenendo conto, perché i promotori non si lasciano sfuggire niente, anche dei flussi turistici).

A tal fine, prosegue la proposta di legge, dovrebbe essere varato un Piano nazionale di riduzione del numero degli esercenti, da aggiornare ogni tre anni, attraverso la riduzione delle abilitazioni professionali rilasciate a livello comunale; ma anche la previsione di incentivi alla cessazione volontaria dell’attività e l’avvio di progetti di riconversione e riqualificazione professionale. Ma c’è di più: dovrebbe essere costituita anche una Commissione di vigilanza “incaricata di monitorare l’andamento del mercato”.

Più tasse, più norme, più regolamenti, più autorità per sorvegliare non si sa bene che cosa, insomma. Si potrebbero fare tante considerazioni, ma ne basti una: se i nostri parlamentari dedicassero ai temi cruciali per lo sviluppo del paese un decimo dell’attenzione e dell’impegno che sembrano aver speso sui barber shop o sui dolcificanti, forse potremmo guardare al futuro con più ottimismo.

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