Dopo il risultato abruzzese che non vede alcun crollo della Lega come era stato affettatamente previsto dai media di sinistra, con ripresa della solita girandola di retroscena sul dopo Salvini, insomma la telenovela che ormai va avanti da anni, lo stesso Matteo Salvini parte al contrattacco.
Dopo aver registrato un voto tra l’8 e il 9 per cento, praticamente uguale a quello delle Politiche del 2022, molto diverso da quel 3 e qualcosa della Sardegna però dai giornali scorporato dal Partito Sardo d’Azione con cui si era presentata la Lega, Salvini da Nicola Porro su rete 4 ricorda che il 2018 e il 2019 quando fece il boom alle Europee erano “un’altra epoca”. E, sottolinea con forza, la Lega “ha pagato il prezzo di aver fatto parte del governo Draghi”, scelta “che l’ha danneggata”. Scelta che però il vicepremier e ministro delle Infrastrutture-Trasporti non rinnega, ma anzi rivendica: “Non potevamo lasciare l’Italia in mano al Pd e I Cinque Stelle”. Stoccata indiretta a Mario Draghi, accusato di fatto di trattamento privilegiato usato per le forze di sinistra. Indimenticabile la frase su “quello sempre sl telefono con i russi, senza che giornalisti particolarmente proni gli chiedessero chi fosse, seppur fosse evidente che trattavasi di Salvini. Ma anche stoccata indiretta alla stessa alleata, premier e presidente di FdI, Giorgia Meloni, che restando all’opposizione fu poi beneficiata dalla sua linea dura e pura.
Si potrebbe dire che non solo Salvini pagò quel prezzo ma anche Forza Italia, di cui va ricordato che Draghi non volle la partecipazione a quell’esecutivo dell’attuale leader azzurro, Antonio Tajani, preferendogli presenze ritenute più soft, poi trasmigrate in Azione di Carlo Calenda. Ma il punto è che la Lega pagò il prezzo più salato anche perché era ancora all’apice dei consensi mentre FI aveva già incominciato a perderli progressivamente in proporzione con l’accanimento giudiziario nei confronti del suo presidente e fondatore, anche dello stesso centrodestra, Silvio Berlusconi, estromesso anche dal Senato con applicazione retroattiva della legge Severino dopo la sentenza Mediaset.
Per Salvini, leader il cui contatto fisico con i suoi elettori è stato sempre un suo punto di forza, come quella forte empatia espressa dalle migliaia e migliaia di selfie anche nei luoghi più sperduti della provincia italiana, quella forza empatica e di immediatezza nel contatto fisico che Meloni e Tajani non hanno, e che invece ricorda un po’ Berlusconi, il Covid fu una vera e propria mazzata.
Certamente non bastano i selfie per fare politica, ma se a questo si unisce anche il fatto che poi, come ha denunciato con forza Salvini da Porro, la Lega ha incominciato ad essere il partito “più spiato e più dossierato”, come ha rivelato lo stesso Raffaele Cantone, “magistrato di area di sinistra”, di ingredienti incominciano ad esserci abbastanza per poter immaginare che qualcuno abbia pensato di far fuori un partito. E questo senza essere accusati di complottismo. Al di là degli stessi errori che questo partito, come tutti gli altri del resto, può commettere.
Ma Salvini si mostra coriaceo anche sulla sua scelta di fare della Lega un partito nazionale e rivendica con i 43.000 voti in più avuti dal governatore abruzzese Marco Marsilio di aver fatto la differenza. Per cui “siamo determinanti e non è cosa da poco avere vicepresidenti in Sicilia e altrove”. Chiaro riferimento a una certa fronda interna nordista, molto ingigantita e coccolata dai giornali di sinistra. Salvini fa presente che “dopo 30 anni”, la sua Lega “ha portato a casa l’Autonomia differenziata”. Sottinteso: farebbe molto comodo alle opposizioni una Lega riconfinata tutta al Nord, con il ruolo di partito territoriale.
Salvini assicura che il governo durerà 5 anni. E, del resto, con un po’ forse di eccessiva malizia, ammesso e non concesso che anche un po’ di fuoco amico possa nascostamente sperare in una Lega partitello territoriale, in una fase politica lontanissima come un’era geologica da quella di Umberto Bossi, ecco, sarebbe un calcolo miope, come non rendersi conto che questo comporterebbe la crisi dello stesso centrodestra. Una coalizione plurale la cui forza è nell’unità dove ognuno con la sua specificità e identità è indispensabile all’altro. Le opposizioni non aspettano altro che certe piccole fronde interne facciano loro questo favore. Da qui sui media mainstream l’ossessione contro Salvini. Una malattia? Così appare. Ma con lucidissimi scopi: disarticolare la maggioranza di governo.