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Salvini

Bontà e controindicazioni delle bordate di Salvini contro l’Ue

Perché non sono del tutto convincenti le critiche (giuste per il passato) di Salvini alla Commissione Ue. Il commento di Polillo

Le parole d’ordine di Matteo Salvini sono inequivocabili. Destinate ad essere immediatamente comprese anche da chi non ha particolare dimestichezza o interesse per la politica. Decisamente un pregio. In grado di essere apprezzate, come avvenne durante la campagna per le scorse elezioni europee e tradursi in un bottino di voti più che consistente. Allora la Lega ottenne il 34 per cento dei consensi, diventando il primo partito, in Italia. Vale quindi la pena esaminare più da vicino le sue ultime esternazioni. Prendendo come riferimento il suo ultimo intervento durante la recente kermesse di “Identità e democrazia”.

In primo piano, ovviamente, considerata la presenza degli alleati d’Oltre Alpe, il tema dell’Europa. Sono giuste le critiche, ancora una volta avanzate? Più che giuste doverose, se riferite al passato. Se oggi si sta con il fiato sospeso, nel timore che Donald Trump, negli Stati Uniti, possa vincere le elezioni presidenziali, questo si deve ai passati errori della politica europea. Ai limiti di quell’asse franco – tedesca, che allora, ne ha guidato i destini. Quella lunga miopia, riflesso della proterva difesa dei propri interessi nazionali, ch’era l’esatto opposto della leadership, come teorizzato da Charles Kindleberger. Altro che vantaggi ed oneri per il “principe”! L’essenza di quella politica fu mercantilismo (tedesco) e ostentazione della “grandeur” (francese). Gli ingredienti che, alla fine, condirono la Brexit, spingendo la Gran Bretagna all’abbandono. Ma lasciando l’intera Europa in balia dei possibili eventi.

Da allora, qualcosa è cambiato. Il Covid prima, l’invasione dell’Ucraina poi, l’assedio di una parte del Sud globale, che non fa mistero dei suoi propositi aggressivi contro tutto l’Occidente, ha inciso sul registro delle politiche europee. A partire dalla Next generation UE e la messa in comune di una parte, seppure ancora troppo piccola, del debito. Che è destinata tuttavia ad aumentare. Troppi gli impegni vagheggiati (dal green deal, alla difesa comune ed alla riconversione produttiva, riflesso della crisi del vecchio modello di globalizzazione) per essere sostenuti facendo ricorso alle sole finanze nazionali.

Gli attuali equilibri politici europei consentiranno tutto questo? Difficile rispondere. Ma mai, come in questo caso, lo scettro è in mano al popolo. Le imminenti elezioni europee avranno un significato costituente. Dovranno segnare l’avvio di una nuova fase o il definitivo tracollo di una struttura che non più in grado di reggere alle sfide del proprio tempo. Sarà ancora Ursula Von Der Leyen a gestire questa fase? O non sarà necessario rivolgersi a personalità – si pensi a Mario Draghi – in grado di offrire maggiori garanzie? Staremo a vedere. Stando tuttavia attenti a non mettere il carro davanti ai buoi, ipotizzando alchimie politiche che nessuno è in grado di predire. L’unica certezza è che di fronte ai grandi mutamenti geopolitici del quadro internazionale la solitudine non fa la forza, ma la debolezza di qualsiasi Nazione.

C’è poi l’ambiguo rapporto con Putin. Ieri più evidente nelle sue manifestazioni di bandiera: dalla maglietta indossata, alle dichiarazioni contro Mattarella. Oggi coniugato in modo più sottile. Contro i “guerrafondai” di ogni risma. Un giusto anelito per la pace? E chi non potrebbe non essere d’accordo? Sennonché tra lo sforzo necessario per far tacere i cannoni e la proposta di smilitarizzazione esiste un abisso, che favorisce le mire espansionistiche dell’autocrate di turno. Sia esso il nuovo Zar o abbia il volto di Khāmeneī, la guida suprema dell’Iran. Cedere terreno, in questo caso, non significa favorire la pace, ma lavorare per ulteriori conflitti e la propria soccombenza.

Ma in Italia, si potrebbe subito controbattere, il sentimento pacifista è profondo e diffuso. Compito di un dirigente politico è anche quello di tenerne conto e di rappresentarlo. Più che giusto. Questa policy non può essere lasciata nelle mani di Giuseppe Conte e dei soli 5 stelle. Ma anche in questo caso c’è una differenza. Le ambizioni di questi ultimi sono il consenso per il consenso. Non c’è politics. Basti vedere come hanno trattato le pubbliche finanze del Paese. Una politica devastatrice. Nel caso della Lega, invece, almeno in origine, esisteva l’idea centrale della difesa del Nord, che poi Salvini ha trasformato in qualcosa di più evanescente. Ebbene qual è la sua visione aggiornata? Una nuova alleanza giallo-verde? La riedizione di un connubio, durato lo spazio di un mattino?

MATTEO SALVINI, IL RABDOMANTE

Fare politica non può significare trasformarsi in un rabdomante, alla continua ricerca di una pozza d’acqua da prosciugare. Le diverse policies, che tutte insieme danno il segno della politics, richiedono un filo rosso di coerenza. Specie per una formazione politica che ha che caratteristiche dei vecchi partiti del ‘900. E con essa il costante riferimento agli interessi, di più lungo periodo, che si vogliono rappresentare. Soprattutto almeno quelli del Nord. Dove si concentra tutto lo sviluppo della Nazione. Quegli interessi che, almeno nell’immediato rappresentano gli interessi dell’Italia, si difendono meglio curando il rapporto con l’Europa o quello con l’Oriente: Russia da un lato, Cina dall’altro?

Dal 2014 in poi, quel poco di sviluppo che c’è stato in Italia si deve alle esportazioni. Esse hanno consentito di ripagare i debiti contratti nei primi anni della nascita dell’euro e trasformarla da Paese debitore nei confronti dell’estero in un Paese creditore. In soldoni, ciò ha rappresentato uno sforzo finanziario di oltre 500 miliardi di euro: più di un terzo del reddito nazionale. Il contributo del Nord è stato determinante. Le esportazioni da quei territori sono state pari al 70 per cento del totale. Con flussi commerciali che, per il 68 per cento si sono localizzati all’interno dei Paesi Occidentali, di cui quasi il 98 per cento verso i Paesi europei.

TRA VIA DELLA SETA E AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Ha, allora, senso seguire le orme di Putin, o il miraggio della “Nuova via della seta”, come avvenne durante il Governo giallo-verde? Per preservare quel 4 per cento scarso delle esportazioni italiane? Si parla molto di “autonomia differenziata”. Ma questa prospettiva ha una prospettiva solo se non va contro le leggi di mercato, che quel piccolo miracolo hanno già realizzato. I dati ISTAT sono impietosi. Nel 2013 il reddito medio per abitante oscillava nel Nord tra i 37 ed il 38 mila euro, nel Mezzogiorno era pari in media al 31.800 euro. Con una differenza di circa il 18 per cento. Che nel 2022 è diventa pari a quasi l’80 per cento (circa 40 mila euro pro capite, contro 21.700).

Ed ecco allora la piccola morale. Va bene, per chi ci crede, affidarsi alla bacchetta del rabdomante per cercare quei giacimenti di consenso che sono il sale della politica. A condizione tuttavia di non smarrire le coordinate geologiche che caratterizzano i singoli territori. Si rischia altrimenti, come sta avvenendo – elezioni dopo elezioni – di scavare inutilmente nel terreno: avendo ormai smarrito il senso della prospettiva.

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