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Perché vince lo status quo: Mattarella, Draghi e Belloni restano al loro posto

Come è nata la riconferma del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il commento di Francesco Damato

 

Ambasciator non porta pena, si potrebbe dire anche a proposito dell’epilogo della candidatura dell’ambascatrice, appunto, Elisabetta Belloni alla Presidenza della Repubblica, esplosa mediaticamente e politicamente dopo un incontro fra il segretario del Pd Enrico Letta, il presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte e il leader della Lega Matteo Salvini.

Incolpevole di tanta anomala avventura, la direttrice del dipartimento che coordina i sevizi segreti rimarrà tranquillamente al suo posto, avendola gli stessi partiti promotori esonerata dallo scomodisissimo passaggio parlamentare. Che avrebbe potuto risolversi in una bocciatura come quella giù rimediata – su un altro versante politico – dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberto Casellati, viste le fratture subito emerse dall’interno della stessa maggioranza che l’aveva così incautamente esposta. E, se bocciata, la responsabile dei servizi segreti ne sarebbe uscita indebolita, compromessa e quant’altro anche nelle sue funzioni amministrative.

Ognuno, e non solo l’ambasciatrice Belloni, rimarrà tranquillamente al suo posto: a cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al quale i capigruppo della maggioranza, aiutati dietro le quinte dal presidente del Consiglio Mario Draghi, hanno chiesto nelle dovute forme di rito di accettare la rielezione all’ottavo scrutinio, dopo essere stato già votato nei precedenti, rispettivamente e autonomamente, senza indicazioni partitiche, da 16, 39, 125, 166, 46,336 e 387 fra senatori, deputati e delegati regionali. Rimarrà al suo posto anche il governo Draghi, per quanto un suo autorevole ministro, il leghista Giancarlo Giorgetti, abbia anticipato – mentre scrivo – le sue dimissioni per ragioni presumibilmente interne di partito. Rimarrà infine al suo posto il Parlamento, che rischiava le elezioni anticipate se la corsa al Quirinale fosse proseguita sulla strada dei veti, delle manovre e degli intrighi intrapresa originariamente da un pò tutti i partiti. Che hanno a lungo sottovalutato o perseguito, secondo i casi, il rischio di travolgere anche il governo così fortemente voluto da Mattarella un anno fa per fronteggiare emergenze che permangono, soprattutto quella sanitaria.

Chi aveva scommesso sulla indisponibilità del presidente uscente della Repubblica, già impegnatosi peraltro tra fotografi e telecamere nell’imballaggio e altre operazioni necessarie ad un trasloco dal Quirinale, c’è rimasto forse male. Ed ha già cominciato ad affilare le armi di una lunga campagna elettorale, come Giorgia Meloni. Eppure non era molto difficile prevedere un simile epilogo considerando la natura parlamentare, tanto spesso rivendicata, della Repubblica italiana. Nella quale spetta al Parlamento l’elezione del capo dello Stato, che ne avrebbe poco riguardo se contestasse le sue scelte, a meno di quelle legislative su cui può chiedere una nuova deliberazione ove la ritenesse necessaria, obbligato tuttavia ad accettarle se rinnovate.

Per quanto possa non essere condivisa dall’interessato, stanco o no dei sette anni già trascorsi al Quirinale, la rielezione del presidente della Repubblica può essere impedita solo con una modifica della Costituzione, auspicata ma inutilmente anche da alcuni predecessori di Mattarella che non hanno tuttavia avuto la sfortuna -dal loro punto di vista- di ripetere o allungare il mandato, avendolo dovuto anzi interrompere anzitempo per ragioni politiche o di salute: rispettivamente Giovanni Leone e Antonio Segni.

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