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Perché non sarà scontata l’elezione di Draghi al Quirinale dopo Mattarella

Le elezioni per il Quirinale fra storia, cronaca e scenari. L'approfondimento di Francesco Damato.

Attenti, amici ed estimatori di Mario Draghi, giustamente soddisfatti -per carità- di averlo visto arrivare a Palazzo Chigi, a disegnarne troppo presto il futuro ancora più prestigioso che meritano la sua preparazione e la sua carriera.

Attenti, in particolare, a predirgli il Quirinale già per l’anno prossimo, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella, o per salvare capra e cavoli, come si suole dire, ad auspicare e addirittura prevedere con l’aria di avveduti consiglieri una rielezione dell’attuale presidente a termine sottinteso.

Che sarebbe di un anno: giusto il tempo necessario ad affidare nel 2023 alle nuove Camere, alleggerite di 345 seggi, l’elezione del successore, evitando due cose entrambe negative: da una parte un nuovo capo dello Stato in qualche modo delegittimato dal fatto di essere stato eletto da un Parlamento ormai pletorico e troppo vicino alla scadenza e dall’altra un Draghi troppo presto trasferito da Palazzo Chigi al Quirinale, prima di avere potuto portare abbastanza avanti o già al termine il suo prezioso mandato di governo. Di cui fa parte, pur non esplicita, anche la scomposizione e ricomposizione di schieramenti politici superati ormai da una infinità di eventi e circostanze.

Penso, per esempio, alla crisi identitaria e d’altro tipo di un movimento come quello di Beppe Grillo, uscito dalle urne del 2018 addirittura con le dimensioni e la centralità parlamentare di quella che era stata per tanti decenni la Democrazia Cristiana. Ora sembra un ammasso di rovine che il comico in una vignetta del Fatto Quotidiano mette a disposizione di Giuseppe Conte.

Penso all’abbandonato o quanto meno ridimensionato sovranismo della Lega di fronte all’evoluzione finalmente solidaristica del processo d’integrazione europea, imposta dalle dimensioni e dagli effetti della pandemia, e al conseguente rimescolamento di carte nel centrodestra. O alle tensioni vecchie e nuove del Pd, che il segretario Nicola Zingaretti con un lapus suicida ha appena scambiato per il Pci. Il “suo” Goffredo Bettini nega di avergli mai consigliato un’alleanza “strategica” con i grillini e censura l’”intergruppo” con le 5 Stelle annunciato al Senato. Penso, ancora, alla polverizzazione di quell’area metastasiana di centro che, come l’Araba Fenica, dove sia nessun lo sa.

Di fronte ad uno scenario così complesso e al tempo stesso incerto, pur apparendo e persino essendo la tentazione più facile in cui cadere, un’apertura intempestiva delle danze per il Quirinale, con tanto di date, scadenze e candidati messi ai loro posti potrebbe rivelarsi dannosa per gli stessi interessati. C’è una regola alla quale nessuno è riuscito a sottrarre le corse intempestive al Colle più alto di Roma. Ed è la regola -quasi un ossimoro- della loro imprevedibilità, a forzare la quale si porta addirittura male ai concorrenti. E ci rimette anche chi con troppa presunzione pensa di poterli muovere col filo dei propri ragionamenti da postazioni politiche o soltanto mediatiche. Non faccio nomi perché non è questione di nomi, appunto, ma di metodo.

Di tutte le edizioni della corsa al Quirinale che mi è capitato professionalmente di raccontare, la più scontata o facile da pronosticare nell’epilogo fu sicuramente quella per la successione a Giovanni Leone. Che, eletto alla vigilia di Natale del 1971, anche lui in modo imprevisto dopo una gara allo spasimo fra i due “cavalli di razza” della Dc, che erano Amintore Fanfani e Aldo Moro, avrebbe dovuto lasciare il Quirinale alla fine del 1978.

Moro, fallito l’obiettivo nel 1971, appariva ormai senza rivali nella corsa successiva. Egli era diventato il punto di riferimento indiscusso della Dc, cui era scontato ancor più di sette anni prima l’appoggio dei comunisti. Ai quali lui aveva già strappato all’insegna della “solidarietà nazionale” prima l’astensione e poi la fiducia ai governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti.

Lo stesso Moro era talmente sicuro di essere ormai in vista del Quirinale che nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari congiunti del suo partito, il 28 febbraio 1978, convinse i refrattari all’intesa col Pci sottolineandone -a dispetto di quel che gli avrebbe fatto dire Eugenio Scalfari in una intervista postuma- la transitorietà, in attesa proprio del passaggio istituzionale della fine di quell’anno.

Ebbene, l’elezione di Moro al Quirinale era così inusualmente scontata che il caso -o solo il caso?, verrebbe da chiedersi per i tanti punti ancora oscuri del suo tragico sequestro, tra il sangue della scorta sgominata il 16 marzo a poche centinaia di metri da casa- volle che il presidente della Dc facesse la fine orribile che sappiamo. E neppure Leone, che aveva cercato disperatamente di aiutarlo davvero nei 55 giorni della prigionia nelle mani delle brigate rosse, riuscì a portare a termine regolarmente il suo mandato, punito forse proprio per quel tentativo di salvare l’amico e collega di partito predisponendo la grazia per una detenuta compresa nell’elenco dei 13 “prigionieri” indicati dai terroristi per scambiarli con l’ostaggio.

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