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Giorgetti

Vi racconto le pene a 5 stelle di Mario Draghi

 Da De Gasperi a Draghi, ma anche dai qualunquisti ai grillini. Storia e cronaca nella nota politica di Damato

 

Anche Mario Draghi, come altri che lo hanno preceduto a sorpresa alla guida del governo senza alcuna provenienza partitica, ha dovuto assistere in educato silenzio alle solerti ricerche dei suoi antenati, o soli padri, nonni e bisnonni. Il più gettonato  in questo tutto nel passato è stato Alcide De Gasperi, il cui compito di “ricostruzione” dell’Italia uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale è stato indicato come precedente o modello della ricostruzione del Paese devastato questa volta dalla pandemia. Ma anche dalla crisi dei partiti subentrata alla caduta delle ideologie e al sopravvento della magistratura — e che magistratura, viste le testimonianze e le denunce in corso di Luca Palamara — sulla politica.

Purtroppo non sono abbastanza anziano per vantarmi di avere visto e sentito De Gasperi in Parlamento e a Piazza del Gesù, la sede della sua Democrazia Cristiana, e di tentare quindi un paragone anche visivo e fonico fra lui e Draghi. Posso solo condividere la coincidenza fra le ricostruzioni spettate all’uno e all’altro e la loro comune e lodevole ripugnanza, avendo letto il primo e ascoltato il secondo, alla retorica e alla prolissità.

Fra i due, a dispetto di certe apparenze che potrebbero far pensare il contrario, ritengo che De Gasperi abbia raccolto una eredità migliore di quella ricevuta da Draghi accettando il compito assegnatogli dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Pur tra le rovine della guerra De Gasperi fu in grado di contare, avendoli sia come alleati sia come avversari, secondo gli sviluppi anche della situazione internazionale, su partiti organizzati e su politici  non improvvisati in qualche salotto televisivo ma spesso formatisi nella clandestinità e in prigione per il loro antifascismo. L’antipolitica con  la quale egli dovette fare i conti fu quella del commediografo Guglielmo Giannini, che col suo fronte dell’Uomo Qualunque non voleva dalla politica “rottura di scatole”, secondo un famoso slogan, e si fermò nelle elezioni politiche del 1946  al 5,3 per cento dei voti, portando 30 deputati all’Assemblea Costituente. Nelle elezioni successive del 1948 era già sceso al 3,8 per cento. In quelle ancora successive del 1953, dopo avere tentato un aggancio con Palmiro Togliatti, che pure aveva sino al giorno prima definito “verme, farabutto e falsario”, Giannini finì candidato indipendente nelle liste della Dc nella sua Napoli, mancando il seggio E così avvenne nel 1958, sempre nella sua Napoli, ma nelle liste monarchiche di Achille Lauro.

A Draghi invece è capitato di dover fare i conti col comico Beppe Grillo e col suo MoVimento 5 Stelle, cresciuto  come un fungo fra il 2013 e il 2018, sino a diventare il partito di maggioranza relativa, come la Democrazia Cristiana nella cosiddetta prima Repubblica e Forza Italia di Silvio Berlusconi o il Partito Democratico di Walter Veltroni e poi di Matteo Renzi nella seconda Repubblica, o forse anche terza, secondo i conti di alcuni politologi che si sentono già sulla soglia della quarta.

Del movimento grillino disinvoltamente passato in meno di due anni e mezzo da destra a sinistra come L’Uomo Qualunque della buonanima di Guglielmo Giannini, l’ex presidente della Banca Centrale Europea ha dovuto ereditare nel suo governo un certo numero di ministri che Giannini non ebbe mai. Ed ha dovuto anche prestarsi ai loro spettacoli, a cominciare dalle secchiate di vernice verde rovesciategli addosso da Grillo in persona per coprire il colore nero precedentemente applicato all’uomo delle banche usuraie, dei poteri “forti” e affamatori del popolo e altre diavolerie del genere.

Comprensivo dei problemi identitari e d’altro tipo ancora dei grillini, Draghi non solo ne ha salvato un po’ di ministri, ma ha dovuto cortesemente elogiare il predecessore a Palazzo Chigi Giuseppe Conte e proporsi per certi versi come un suo continuatore, scommettendo sulla disattenzione delle ritrovate o nuove componenti della maggioranza costituite dall’Italia Viva di Matteo Renzi, dalla Lega di Matteo Salvini, da Forza Italia di Berlusconi e dalla Più Europa di Emma Bonino.

Neppure questo tuttavia è bastato a contenere più di tanto i dissidenti pentastellati che hanno negato la fiducia a Draghi, o gliel’hanno accordata in lacrime di sofferenza. E da cui il presidente del Consiglio non è minacciato proprio grazie alle dimensioni della nuova maggioranza che ha potuto raccogliere attorno al suo governo. Il guaio però è che i cosiddetti governisti del MoVimento di Grillo sono così condizionati dalla dissidenza interna da avere infarcito di aggettivi a dir poco equivoci la loro fiducia, sino all’esplosione goliardica del capogruppo al Senato Ettore Licheri. Che ha gridato nell’aula di Palazzo Madama, rivolto direttamente al presidente del Consiglio, che deve aspettarsi da tutto intero il movimento grillino “rotture di scatole”, in un sussulto qualunquistico che non è stato proprio il migliore viatico del governo pur entrato per fortuna nella pienezza dei poteri con la fiducia anche della Camera.

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