Professoressa Betti, sulla base alla sua vasta esperienza del settore, condivide che in Italia esista una “inadeguata percezione del valore dell’intelligence” come ha dichiarato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Se sì, quali sono le ragioni?
Sì, sono assolutamente d’accordo con il senatore Mantovano. È una percezione distorta, inadeguata e, aggiungo, anche profondamente ingiusta nei confronti delle tante persone che nel corso degli anni hanno dedicato, nei più svariati settori, la loro vita professionale alle attività di intelligence, spesso sacrificando molto della propria vita privata perché, quando si lavora in questo ambito, le limitazioni sono veramente tante.
Io faccio parte della vecchia guardia per la quale la compartimentazione era ferrea e neanche i più stretti familiari erano al corrente di quale lavoro effettivamente si facesse. Alcuni di noi, come me, hanno risolto il problema sposandosi con colleghi!
Questo clima, un po’ esasperato, di segretezza può aver alimentato una percezione distorta, ma le ragioni di fondo sono altre. L’Italia è un paese relativamente giovane rispetto ad altri come ad esempio il Regno Unito, che ha una tradizione di intelligence più antica e un radicamento nell’immaginario collettivo più che positivo che si coniuga con un forte senso dello Stato e di appartenenza. Non dimentichiamo poi che in Italia i partiti egemoni sono stati la Dc e il Pci che dal dopo guerra e per molti anni erano portatori di visioni politiche antitetiche.
Il vecchio Pci non era certo atlantista e la vecchia cultura della sinistra non ha mai visto di buon occhio le forze armate e i servizi di intelligence che per lungo tempo sono stati composti per la grande maggioranza da militari. Quando io entrai nel Sismi – era il 1 aprile 1980 – c’erano pochi civili e pochissime donne e non certo in posizioni apicali.
Aggiungo, inoltre, che un giornalismo sensazionalistico poco attento a verificare i fatti e le fonti ha avuto gioco facile nel creare un immagine negativa dei nostri servizi ai quali l’aggettivo più comunemente abbinato è stato ed è purtroppo tuttora “deviati”.
I Servizi non sono mai stati deviati, anche se le mele marce ci sono state, ci sono e ci saranno, ma questa è un’altra storia. Basti ricordare il caso “Gladio” che ha visto scatenarsi procure di mezza Italia e che si è concluso, dopo 11 anni di processi, con la piena assoluzione dei 3 principali indagati: l’ammiraglio Martini, il generale Inzerilli e il contrammiraglio Invernizzi. Tutte sentenze passate in giudicato, ma ancora oggi in occasione di ricorrenze delle stragi, viene ancora chiamata in causa la “Gladio” come presunta responsabile.
Un altro aspetto toccato nei giorni scorsi dal senatore Mantovano è il tema dell'”identità degli appartenenti ai servizi di informazione per la sicurezza impegnati nell’attività di analisi, o comunque in una attività caratterizzata da una naturale esposizione pubblica”. Ricordo che nel master che ho diretto negli anni 2014/18 e a cui lei partecipato come docente di negoziazione, hanno svolto docenze molto utili alcuni funzionari e dirigenti dei servizi di intelligence, ovviamente autorizzati. Dal 2019 in poi non è stato più possibile. Pensa che una partecipazione alle attività di alta formazione e di ricerca dovrebbe essere rilanciato?
È una questione complessa e non facile da affrontare soprattutto sul piano pratico. Negli anni più recenti, però, mi sembra che le maglie si siano notevolmente allentate, a volte anche troppo. Credo comunque che una buona prassi sia quella posta in essere in modo sistematico da diversi servizi stranieri e cioè utilizzare persone andate di recente in pensione come docenti e “ambasciatori” della cultura della sicurezza e di intelligence.
Il vantaggio è di disporre della loro esperienza e professionalità senza che ci sia più il problema di palesare la propria identità.
Vorrei anche ricordare come, nel tentativo di dare voce ai Servizi nell’ottica di una maggiore trasparenza, sia prevista almeno a livello normativo una proiezione esterna della Scuola dei servizi soprattutto tramite convenzioni con le Università. Tempo fa fu inoltre istituita la figura di portavoce e responsabile delle relazioni istituzionali del Dis.
Non sono d’accordo, invece, che gli analisti abbiano un ruolo pubblico. Il valore aggiunto di un analista dei servizi rispetto ad analisti che si basano su fonti aperte consiste nel fatto che l’analista intelligence ha, a sua disposizione, i dati che provengono da ricerca segreta non divulgabile, ma soprattutto l’esposizione pubblica di queste figure le “brucerebbe”, come si dice in gergo tecnico, cioè impedirebbe di fatto un loro eventuale passaggio dalla analisi alla ricerca operativa di informazioni, uno scambio di ruoli che viceversa è prezioso.
Passiamo ora ad un tema che so esserle molto caro: perché il ruolo delle donne nei servizi é particolarmente importante? Cosa ha ricavato dalla sua esperienza personale?
Rispondo con un ricordo. Correva, se non erro, l’anno 1983. Il direttore del Sismi pro tempore ebbe una felice intuizione. Ci disse: “Le donne che sono in possesso di una laurea e vogliono avere un inquadramento consono al loro titolo di studio devono avere una competenza più ampia di quella intrinseca alla loro laurea, competenza che comprenda anche tutti gli aspetti operativi dell’organismo al quale appartengono”. Per cui fu organizzato un corso operativo del tutto analogo a quello previsto per i colleghi maschi e chi lo superava avrebbe avuto la qualifica di funzionario. Voglio specificare che noi civili – a prescindere dal titolo di studio – venivamo inquadrati comunque nelle carriera esecutiva. E così fu. Il corso durò 6 mesi; duri, ma interessantissimi. Eravamo un gruppo sparuto. Non tutte arrivarono alla fine. Ma per chi ci arrivò le forche caudine non erano ancora finite. Ci attendevano altri 6 mesi di “esperimento” durante i quali venimmo trasferite in centri operativi sia in Italia che all’estero. L’ accoglienza non fu delle migliori. L’atteggiamento andava dalla sufficienza, all’ostracismo, al fastidio. Nella migliore delle ipotesi scetticismo. Io fui mandata in un centro di controspionaggio. Bene, alla fine dei sei mesi dovevamo rientrare nella divisioni di appartenenza. Ma ci fu un problema che dovette risolvere il Direttore del Servizio in prima persona. Nessun responsabile dei centri dove avevamo operato voleva privarsi di noi e cercarono di trattenerci in tutti i modi. Avevano scoperto che eravamo in gamba e portavamo quel valore aggiunto che, a volte, solo una donna può dare.
Gli esempi sono fondamentali per trasmettere trasmettere i valori. Cosa vuole raccontare della sua vita professionale? Quali sono state le esperienze più stimolanti?
Eravamo a cavallo tra il 1981 e il 1982. Imperversano le Brigate Rosse. Ci fu ad opera loro un clamoroso rapimento. La mia divisione venne incaricata, nel più totale riserbo, all’insaputa anche di polizia e carabinieri, di individuare il covo che sembrava, a detta di una fonte, trovarsi in un impervia zona dell’Appennino tosco emiliano. Facemmo un ritiro (non spirituale) di 15 giorni nella nostra base in Sardegna per addestrarci.
Io mi trovai, unica donna, con una ventina di operativi. Chi proveniva dagli incursori del 9’, chi dal Consubim (incursori della Marina Militare, ndr), insomma, personale super addestrato. E io che ci facevo lì? L’idea era che in caso di rinvenimento del covo io, come psicologa, procedessi all’interrogatorio dei brigatisti. Comunque feci addestramento con i miei colleghi. Soprattutto per me tanto poligono di tiro. Ho sparato con tutte le armi, corte e lunghe, giorno e notte. Poi la partenza. Avremmo dovuto stare via una manciata di giorni e invece fu un periodo molto lungo. Eravamo partiti di notte con quello che avevamo addosso e poco più. Non entro nel dettaglio dell’operazione, sarebbe troppo lungo. Quello che non potrò mai dimenticare fu quella notte in cui si pensava fosse stato individuato il covo: il responsabile dell’operazione decise che a fare irruzione per primi fossi… io e un operativo esperto, un mio caro amico. Perché fui scelta? Perché come coppia davamo meno nell’occhio! Se le cose fossero andate come previsto, forse oggi non starei qui a raccontarlo perché si sa che i primi ad irrompere, difficilmente portano a casa la pelle. Ricordo la fredda sensazione di certezza che quella sera sarei morta. Avevo 26 anni.
Cosa suggerirebbe ad una ragazza che ha appena vinto un concorso nei servizi di intelligence?
Di farsi un esame di coscienza! A parte gli scherzi, non basta la competenza specifica per la quale si è stata scelta. Io metto alla base di tutto un forte senso dello Stato, che purtroppo, nel nostro Paese non viene coltivato abbastanza, soprattutto nelle scuole e nelle università. Poi un po’ di sano realismo. Non ci sono stipendi da favola, la progressione di carriera non è scontata, anzi, più spesso è lenta e faticosa, l’ambiente (come peraltro tutti gli ambienti di lavoro) può non essere facile.Soprattutto deve prevalere l’orgoglio di far parte di un organismo dello Stato fondamentale per la sicurezza dei cittadini.
Secondo lei sarebbe utile una maggiore dialettica in stile anglosassone tra politica e intelligence?
Assolutamente sì. Non a caso i migliori risultati il Servizio li ebbe sotto la guida dell’Ammiraglio Fulvio Martini che dialogava costantemente e vivacemente con il Presidente del consiglio dell’epoca Bettino Craxi. Fu grazie anche a questa sinergia che fu possibile superare la crisi di Sigonella, che poteva compromettere i rapporti con il nostro principale alleato. È stato il migliore perché univa ad una intelligenza non comune, il background professionale ideale. Brillante ufficiale di Marina (che storicamente è la forza armata che più si è distinta nel campo dell’intelligence) è stato anche addetto militare a Belgrado. E come se non bastasse, disponeva con una conoscenza del Servizio più che approfondita, avendo ricoperto, al suo interno, incarichi di rilievo. Questa somma di elementi lo hanno reso unico, oltre al fatto, non trascurabile, che poteva vantare conoscenze dirette e personali con molti leader politici dell’epoca che nutrivano nei sui confronti rispetto e ammirazione. Noi poi lo adoravano. Oltretutto era di una incredibile simpatia. Ricordo, in particolare, una cena a casa sua, dove c’era anche un noto magistrato, durante la quale ho riso come poche volte nella vita.