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Perché il Financial Times non sballotta l’Italia sulla manovra (ma Bruxelles sbuffa)

Il commento di Gianfranco Polillo

Inviato a Bruxelles il Documento programmatico di bilancio, inizia la fase più delicata di quel percorso ad ostacoli che porterà all’approvazione definitiva della legge di bilancio. La “manovra del popolo” come continua a ripetere, con enfasi, Luigi Di Maio, forte del successo conseguito nei confronti del suo alleato.

Da una parte i soldi necessari per il salario di cittadinanza, da utilizzare in tempo utile. Vale a dire prima delle prossime elezioni europee. Perché essere secondi a Matteo Renzi, che elargendo gli 80 euro conquistò la vetta del 40 per cento? Dall’altra un limitatissimo ristoro nel pagamento delle tasse, per altro interamente (o quasi) finanziato, almeno per l’anno in corso, dal “condonino”, com’è stato subito ribattezzato, dopo la levata di scudi dei 5 stelle contro gli orrendi “evasori”. E’ facile prevedere che il Parlamento non farà storie. Tuttalpiù, come sempre è capitato, aumenterà il tiraggio della spesa corrente, rispetto alle ipotesi iniziali. I problemi inizieranno, invece, proprio nella capitale belga.

Jean Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, ha già messo le mani avanti. Nell’apposita conferenza stampa con i corrispondenti italiani, dopo aver ribadito il suo amore sperticato per il Bel Paese, ha fatto chiaramente capire che ben poco dipende da lui. “Se accettassimo il derapage” previsto dalla manovra rispetto alle regole europee – ha detto candidamente – “alcuni Paesi ci coprirebbero di ingiurie e invettive con l’accusa di essere troppo flessibili con l’Italia”. Preoccupazioni reali o semplici auspici? Nel gioco di specchi della diplomazia europea, finzione e realtà si mescolano e si sovrappongono continuamente. Ed è difficile individuare i relativi confini. E oggi il commissario europeo al Bilancio, Guenther Oettinger, conferma allo Spiegel: l’Europa si appresta a rigettare il progetto di Bilancio italiano.

Quella vecchia volpe di Mario Draghi, in trasferta con il Gotha finanziario internazionale a Bali, non aveva esitato a dare una mano agli inesperti governanti italiani, invitandoli a moderare i toni. La strada più agevole per giungere ad un onorevole compromesso nel reciproco interesse. Consigli che l’irruenza giovanile di Di Maio (per non dire altro) gli ha impedito di cogliere. Rispondendo a Juncker, non ha esitato a rincarare la dose: “Solo perché il governo” italiano “non è simpatico a lui e all’élite di cui fa parte” può pure continuare a rivoltarsi contro la “manovra del popolo” ma “gli rimane tempo ancora fino a maggio”. Dopo sarà spazzato via dal trionfante populismo: questo il retro pensiero. Sennonché, dopo i risultati delle elezioni bavaresi, è un po’ vendere la pelle prima di aver catturato l’orso.

Per fortuna, in Europa, vi sono ancora esseri pensanti. Una lancia, a favore del governo italiano, è stata spezzata in questi giorni dal Financial Times. In un lungo articolo, la logica del Fiscal compact è stata vivisezionata, facendo emergere tutte le ombre che si addensano su una procedura sempre più lontana dal mondo reale. “Barocchismo, esoterismo, ingestibilità”: queste le accuse riportate, sentendo esperti e uomini di Governo. Come pure ricordando i tanti episodi – Germania, Francia, Spagna e Portogallo – che hanno segnato il percorso della Commissione: il più delle volte impotente di fronte ad una violazione, anche plateale, delle regole del gioco. Per giungere alla conclusione che non sarebbe giusto condannare un Paese come l’Italia, dopo averne assolto tanti altri.

E’ il dilemma italiano. Aver ragione sul merito della questione e torto sulla procedura seguita nel tentativo di farla valere. Non si può chiedere ad un Paese che cresce ad un ritmo inferiore all’1 per cento – questa la tesi del Financial Times – un’ulteriore manovra deflattiva, sul fronte della pubblica finanza. Assolutamente condivisibile. A motivare ulteriormente questa diagnosi c’è solo da aggiungere che da oltre 5 anni l’Italia vive non sopra, ma al di sotto, delle proprie possibilità. Con un avanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti superiore al 2,5 per cento del Pil che, secondo le previsioni, è destinato a durare ben oltre il 2021. Il che significa un eccesso di risparmio interno sulla capacità di investimento, che non trovando occasione di impiego all’interno dei confini nazionali, sceglie la via dell’estero. Situazione sempre meno tollerabile, se si considera il livello di disoccupazione esistente (circa il 10 per cento della forza lavoro) e il progressivo restringimento (solo al Nord) delle basi produttive dell’intero Paese.

Contraddizioni così evidenti la dicono lunga sul risentimento, nei confronti dell’Europa, da parte di uno strato crescente dell’elettorato italiano. Ai burocrati di Bruxelles si imputano, anche sbagliando, gran parte delle responsabilità circa il perdurare della crisi. Forse dimenticando che quei condizionamenti hanno potuto operare soprattutto a causa dell’inadeguatezza di un ceto politico che, negli anni passati, non ha saputo difendere i colori nazionali. Triste prospettiva che, purtroppo, rischia di ripetersi nell’immediato futuro. Pensare che sia sufficiente mostrare i muscoli, che per altro non si hanno, per risolvere i problemi è la peggiore illusione che si possa coltivare.

Nella passata legislatura qualche piccolo passo in avanti era stato compiuto. Camera e Senato, con due distinte mozioni, seppure con motivazioni diverse, avevano chiesto al governo Gentiloni di votare contro la proposta della Commissione europea di inserire definitivamente il Fiscal compact nell’ordinamento europeo, secondo quanto stabilito dal relativo Trattato. In vista della relativa discussione, che si sarebbe dovuta svolgere nella prossima primavera, forse, l’attuale governo doveva far valere fin da ora quella posizione. Presentarsi, cioè, nelle varie riunioni (Ecofin e Consiglio europeo) non per richiedere maggiori margini di flessibilità. Vecchia posizione. Ma per prendere di petto la questione.

Dire, in altre parole, che l’architettura tradizionale del Fiscal compact non era compatibile con gli assetti dell’economia italiana. L’applicazione meccanica di quella regola, infatti, avrebbe aumentato e non diminuito i suoi squilibri macroeconomici, creando addirittura i presupposti per una futura procedura d’infrazione. Avrebbe così spostato l’asse della discussione: non più la staticità (Paolo Savona) di un semplice rapporto aritmetico, ma il dinamismo di una diversa politica economica. Posizione, tra l’altro, che non avrebbe legittimato fenomeni imitativi da parte degli altri Paesi europei. Il surplus strutturale dei conti con l’estero è, infatti, un appannaggio quasi esclusivo: Italia, Olanda e Germania.

Quest’approccio è completamente mancato. Il governo italiano ha preferito seguire le orme dei precedenti esecutivi. Trascurando completamente le novità ch’erano intervenute nella presa di posizione del Parlamento. Ed ora si trova tra l’incudine ed il martello. Speriamo solo che l’eventuale colpo non sia particolarmente duro e si possa, seppure tardivamente, trovare il necessario compromesso, che in qualche modo anticipi la discussione circa la futura riforma del Patto di stabilità. Ma per ottenere un qualche risultato tangibile è tempo di usare la testa, invece di insistere sull’invettiva. Come si sta facendo, puntando sulla palingenesi di un risultato elettorale – la cacciata del vecchio establishment – la cui certezza è tutt’altro che matematica.

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