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Macron

Perché Macron rottamerà il progetto di partito unico centrista

Dopo il primo turno delle elezioni, Macron ha detto di essere pronto a “inventare qualche cosa di nuovo”. Di che si tratta? Il punto di Enrico Martial

 

Al primo turno elettorale di domenica scorsa, il presidente francese uscente, Emmanuel Macron, ha ottenuto il 27,6% dei voti, rispetto al 23,4% di Marine Le Pen. Rispetto alle intenzioni di voto, che li davano in parità intorno al 24%, sulle prime è parso un mezzo successo.

Tuttavia, quando Macron si è presentato al suo quartier generale della campagna elettorale non è parso così sereno. Oltre ai ringraziamenti e ai richiami elettorali, ha annunciato un cambio di approccio, che d’altra parte era nell’aria. “Sono pronto a inventare qualcosa di nuovo per riunire le posizioni e le sensibilità” ha detto. Questo “inventare qualche cosa di nuovo” non sembra essere il partito unificante del centro di cui si parla orma da tempo, quanto piuttosto il superamento del monocolore de La République en Marche per passare a una maggioranza di coalizione.

La suddivisione in gruppi parlamentari, a sinistra o a destra, pur eletti sulla scia del macronismo del 2017, risale almeno al 2019. Sarebbe superato ora il principio di “allo stesso tempo”, con cui Macron assorbiva destra e sinistra, com’è finora avvenuto. All’1,7% si trovano oggi alle presidenziali i socialisti di Anne Hidalgo e al 4,8% gli eredi del gollismo, Les Républicains di Valérie Pécresse.

Jean-Francois Copé, più volte ministro ai tempi di Jacques Chirac, nella serata elettorale di domenica sera su France 2 ha detto che ci vogliono alleanze tra partiti, che è finito il tempo del monocolore e malgrado il risultato numerico delle presidenziali. Conta il ragionamento politico, si tratta di due classi dirigenti – quella socialista e quella neogollista – con molti eletti nei comuni, dipartimenti e regioni, e presenti nella dirigenza della pubblica amministrazione. Sono le forze che possono consentire le riforme annunciate che faticano invece ad essere attuate, dalle pensioni alla pubblica amministrazione, alla transizione ecologica.

La critica del modello del partito unico “macronista” di centro trova ragioni anche nello scenario geopolitico europeo. Con elezioni presidenziali a due candidati contrapposti, l’alternanza non è più tra due forze repubblicane europeiste e atlantiche, sia pure alla francese (socialisti e neogollisti) ma tra una forza repubblicana che non riesce a rafforzarsi (il partito centrista di Macron) e una nazionalista e populista (Le Pen più Zemmour), che può vincere e che per soprammercato ha forti relazioni con la Russia di Putin.

È pur vero che Macron vanta risultati oggettivi, nell’occupazione, nell’innovazione e nelle start up, nel recupero di filiere industriali quasi scomparse: ma il messaggio non passa. La determinazione in politica estera, nel tandem franco-tedesco e sul ruolo “autonomo” europeo o la buona gestione della crisi Covid, generano più insofferenza che apprezzamento. Come avvenne in Italia nel 2013 e nel 2018 con il voto nazionalista e populista, continua a dominare una rabbia diffusa, già emersa con i gilets jaunes e ancora viva, in una contrapposizione tra città e campagna, tra quadri, operai e impiegati. Ha radici in diverse aree del Paese, porta le ferite nella memoria dagli attentati del radicalismo islamico, ravvivate dal recente processo sulle stragi del Bataclan e dei caffè parigini.

Con il 7,1% di Eric Zemmour, più a destra dell’estrema destra di Marine Le Pen che porta il 23,4%, più il 5,3% di due candidati di estrema destra, Jean Lassalle e Nicolas Dupont-Aignan, si arriva quasi al 36% dei voti. Jean-Luc Mélenchon ha raggiunto il 22%, con un nuovo fronte popolare anch’esso populista: per un totale di un 58% di voti estremi, a destra e sinistra. Il Rassemblement national di estrema destra intende paradossalmente recuperare per il secondo turno proprio i voti anti-sistema del Mélenchon di sinistra, malgrado questi abbia detto “nessun voto per Marine Le Pen”.

L’estremismo alle presidenziali è ancora più significativo se si nota il suo radicamento: il principale sponsor di Eric Zemmour è Vincent Bolloré, proprietario di diversi media francesi (e azionista dell’italiana TIM). Alcuni Républicains guardano da tempo all’estrema destra, come Eric Ciotti che ha già detto che non voterà Macron.

In altri termini, il bacino elettorale del presidente uscente è più ristretto di quello del 2017, soprattutto se si considera che alcuni socialisti e Républicains hanno già votato Macron al primo turno, forse per il 4% di scarto tra le intenzioni di voto (al 24%) e il voto reale (al 28%).  Le stime di Ipsos per il secondo turno del 24 aprile danno Emmanuel Macron al 54% contro il 46% di Marine Le Pen, un margine più ristretto dell’esito del 2017, che era al 66,1% contro il 33,9%. È dunque una partita ancora tutta da giocare.

Ci deve aver pensato, Vladimir Putin, quando ha iniziato la guerra in Ucraina il 24 febbraio scorso: la Francia sarebbe stata distratta dalla campagna elettorale, il suo presidente in carica sarebbe stato doppiamente impegnato, e dalla guerra avrebbe probabilmente avuto danno personale e politico.

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