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Di Maio

Di Maio? Un vero artista della sua carriera

Il corsivo di di Teo Dalavecuras.

 

Se è vero che niente è inedito come il già edito (così suona la massima attribuita a uno storico direttore del Corriere della Sera negli anni della ricostruzione postbellica e del primo boom, Mario Missiroli) bisogna riconoscerlo: il trattamento massmediatico della nomina a inviato straordinario dell’Unione Europea nei Paesi del Golfo Persico di Luigi Di Maio (che d’ora in avanti potrebbe anche, aristocraticamente, ribattezzarsi di Maio con la “d” minuscola, visto che avrà a che fare con diplomatici di professione, non di rado titolati) rispetta i migliori canoni del discorso pubblico e conseguentemente della professione giornalistica.

Il tema si è prestato a un ampio spettro di commenti: dalla rievocazione di “Giggino il bibitaro” (scelta poco carina per il Paese che lo ha avuto vice-presidente del Consiglio e quindi per i cittadini di questo stesso Paese, lo si nota senza offesa per la professione del bibitaro), alla conclusiva sensazionale scoperta che “Per soldi i grillini sono diventati camaleonti” (La  Verità). In mezzo c’è stato un po’ di tutto, dalla ricerca del movente che ha spinto Josep Borrell a scegliere Di Maio scartando gli altri candidati (ricerca inutile perché in una struttura di potere burocratico e quindi tendenzialmente totalitaria qual è la Commissione europea nessuno può permettersi di decidere nulla da solo, e chi lo fa viene stritolato dalla macchina come anche il cosiddetto scandalo Qatargate si è incaricato di dimostrare) a molteplici considerazioni sull’inadeguatezza del prescelto al ruolo di “uomo dell’energia” della Ue (considerazioni che lasciano il tempo che trovano: l’idea che il tema degli approvvigionamenti energetici della Ue sia affidato a Di Maio o comunque a uno dei numerosi e volonterosi personaggi che occupano la scena pubblica del nostro continente è di una comicità irresistibile). Infine, il tema è sicuramente inedito visto che – per stare alla massima ricordata all’inizio – se ne parla dall’epoca dello spettacolare fiasco elettorale dello stesso Di Maio a settembre dell’anno scorso.

Questa nomina è ovviamente un premio a Di Maio per la sua fedeltà perinde ac cadaver al governo Draghi. É decisamente uno sberleffo a Emmanuel Macron costretto, quattro anni fa, a richiamare l’ambasciatore da Roma dopo la “gita” a Parigi di Giggino allora vice-presidente del Consiglio insieme a Dibba allora compagno inseparabile, per portare la solidarietà dell’Italia ai Gilets Jaunes che stavano mettendo a ferro e fuoco la Francia: un precedente che senza dubbio qualifica Di Maio per qualsiasi incarico diplomatico. É sicuramente un avvertimento all’Italia: Bruxelles non ha troppa simpatia per i governi dinamici in politica estera. Va bene l’atlantismo, ma ancora meglio se filtrato da Palazzo Berlaymont, mentre a Roma dovrebbero concentrarsi su cose come la revisione del catasto o l’apertura delle concessioni balneari al mercato internazionale.

Tutto questo, e molto altro. A mio modestissimo parere l’investitura di De Maio a inviato straordinario della Ue dice però soprattutto un’altra cosa: che l’ex grillino partenopeo continua a dimostrarsi un vero artista nella costruzione della propria carriera. Oggi, nell’epoca del potere burocratico, saper fare bene un mestiere conta sempre meno, perché quel che si deve fare sta da qualche parte, in qualche procedura. Quel che serve, per uscire dalla routine e inoltrarsi nei viali del successo e dell’agiatezza, è la capacità di costruire e far crescere una ragnatela di rapporti personali aggiornati e soprattutto la scelta – granitica – di credere esclusivamente nella propria modesta,  o magari anche pretenziosa – convenienza personale. Gli uomini di potere amano circondarsi di persone che abbiano obiettivi chiari, anche grillini se occorre ma senza grilli per la testa, solo di questi si fidano. Nessun obiettivo è precluso alle persone di questa stoffa e il nostro neo inviato staordinario dà le massime garanzie da questo punto di vista: non è da tutti far planare sul Quirinale la minaccia di messa in stato d’accusa e dopo una manciata di giorni uscire dal Quirinale con l’incarico di vice-presidente del Consiglio accompagnato da un paio di portafogli ministeriali.

Questo ormai prevalente criterio di selezione dell’élite può comportare il rischio di decisioni non avvedute o addirittura disastrose, ma è un rischio le cui eventuali conseguenze ben di rado ricadono sugli eletti. Del resto, nelle decisioni importanti si inserisce il pilota automatico, come si è visto in Europa il giorno dopo l’invasione dell’Ucraina o, in epoca più vicina, il 17 marzo scorso quando il Financial Times ha anticipato quella che sarebbe stata la manovra di salvataggio del Credit Suisse ufficializzata due giorni dopo. Oppure si può ricorrere al telefonino come è d’uso dalle parti della signora Von der Leyen. Certo, poi magari accade che ci si ritrovi con grandi quantitativi di vaccini pagati e inutilizzati, con qualche migliaio di disoccupati in più o con un continente mediamente più povero, ma questo non è un problema degli eletti che – con la parziale eccezione delle autorità elvetiche cui non sono state risparmiate critiche severe e anche brucianti – sono sempre avvolti dalla affettuosa comprensione del mondo dei media europei che il verbo, salvo circoscritte deplorevoli eccezioni, lo ricevono da Bruxelles.

Più di cinquant’anni fa Gigi Riva, leggendario capitano del Cagliari, lasciò cadere l’offerta di Franco Zeffirelli che gli aveva offerto 400 milioni di lire per il ruolo di Francesco nel film dedicato al poverello di Assisi, obiettando che l’unico mestiere che sapeva fare era quello del calciatore. Lo stampo di persone così è andato smarrito ma anche se lo si ritrovasse sarebbe inutilizzabile: oggi, temo, produrrebbe solo emarginati. Temo, in altre parole, che oggi quel che Leonardo Sciascia diceva tanti anni fa della sua amata Sicilia, che l’unica risposta ai mali dell’isola era l’aeroporto, cioè andarsene via, si può cominciare a dirlo dell’Europa.

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