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Luciano Pellicani, la grandezza dell’intellettuale anticonformista. Il ricordo di Ocone

Luciano Pellicani ero arso dal dèmone socratico e anteponeva il dialogo sulle idee, e anche la sana polemica intellettuale, ad ogni altro interesse estrinseco agli studi. “Ocone's corner”, la rubrica settimanale di Corrado Ocone, filosofo e saggista

Stavo preparando questa rubrica, che avevo pensato di dedicare anche questa settimana alla crisi dell’idea di Progresso, continuando il discorso intrapreso, quando ho saputo della scomparsa di Luciano Pellicani.

Il direttore di Start, che come tanti oggi affermati giornalisti lo aveva avuto come docente alla Scuola di giornalismo della Luiss Guido Carli, mi ha amabilmente suggerito di dedicare all’illustre studioso questo spazio domenicale.

Non lo aveva mai fatto prima, lasciandomi sempre carta bianca, e questo mi ha fatto pensare a qual buon ricordo Luciano abbia lasciato nei tanti allievi a cui ha insegnato in tanti anni di vita accademica.

D’altronde, io che gli ero amico e che mi vantavo con lui di averlo abituato ai buoni ristoranti, che prima a mio modo di vedere lui sceglieva un po’ a caso, essendo giustamente interessato alla sola e amicale convivialità, avevo potuto verificare tante volte questa circostanza.

Non era raro che da un tavolo affianco al nostro si alzasse un commensale e lo salutasse, ormai adulto e irriconoscibile, ricordando di essere stato suo allievo in quel particolare corso di quel particolare anno accademico.

Tutti, ad anni di distanza, gli dicevano che, dopo quelle lezioni, la loro vita era stata in qualche modo diversa. E tutti, probabilmente, lui li considerava, casomai pure quando non li aveva promossi (mi dicono che agli esami fosse particolarmente severo), dei figli adottivi, lui che di figli non ne aveva avuti.

Qual era il suo segreto? Capirlo forse può esserci utile anche a capire ciò che è andato perduto nel mondo culturale e accademico odierno e che, se solo fosse coltivato, servirebbe a farlo rinascere più di mille decreti legge e riorganizzazioni ministeriali.

Fra tanti insegnamenti e discipline, competenze e test attitudinali (che Luciano giustamente odiava), professori-manager e manager-professori, sono oggi assolutamente deficitari gli uomini di cultura profonda, di idee forti (e spesso anche unilaterali come erano quelle dell’amico scomparso), di giudizio fermo e di passione vera.

Luciano era arso dal dèmone socratico e anteponeva il dialogo sulle idee, e anche la sana polemica intellettuale, ad ogni altro interesse estrinseco agli studi. Era, non suoni retorico dirlo, uno di quei pochi che per le loro idee sono anche disposti a pagare qualche prezzo (Pellicani meritava sicuramente molto di più nella vita pubblica, extrauniversitaria: sia in politica, sia nel mondo culturale).

Da queste caratteristiche “socratiche”, dalla passione che lo animava e che trasmetteva, ne discendeva naturaliter la capacità di insegnare in modo vivo e concreto. Sapeva, come pochi, far scattare quella “scintilla” che a volte trasforma radicalmente il nostro orizzonte mentale.

Tanti i ricordi. Uno per tutti. Fra gli studi di Pellicani, che rimarranno sicuramente per anni nelle bibliografie scientifiche, c’erano quelli sulla mentalità dei rivoluzionari, che egli riconduceva ad una sorta di manicheismo le cui le prime tracce erano per lui nello gnosticismo classico, di cui quello moderno conservava quasi tutti gli aspetti di millenarismo e messianismo.

Quando, all’inizio del nuovo millennio, il terrorismo islamista cominciò a insanguinare le strade dell’Occidente, Pellicani vide subito la stessa radice “rivoluzionaria” nei kamikaze che si facevano esplodere per adempiere alla loro “missione”.

Io che allora dirigevo la casa editrice della Luiss, che era nata qualche anno prima da una mia idea, proposi a Luciano di esporre le sue tesi in un agile pamphlet. Non solo, lui che aveva possibilità di pubblicare con editori più grandi, accettò, ma chiese anche a Giovanni Sartori (che tanti anni prima lo aveva aiutato a restare in Italia e a non trasferirsi in Spagna per insegnare) di scrivere la prefazione.

Ciò contribuì a decretare il successo di quel volumetto, che ancora oggi è citato nelle bibliografie non solo italiane. Forse fu allora che nacque la nostra amicizia, fatta di discussioni accanite, io “idealista” e crociano e lui tutto sommato un positivista critico e sofisticato quanto altri mai.

Aveva un rapporto non risolto, secondo me, con Benedetto Croce, di cui apprezzava la testimonianza morale e politica ma non condivideva (almeno fino a un certo punto) la metodologia filosofica.

Il terreno ideale per la polemica, che, fra un suo continuo accendere e spegnere sigarette, continuava, nelle nostre cene al ristorante, fino a ora tarda. Fino a quando i proprietari, cominciando a spegnere poco alle volte le luci, ci facevano capire gentilmente che era ora di andare a casa. Ove ovviamente, lui motorizzato e io spaventato, mi accompagnava con un passaggio.

La malattia che lo ha portato alla morte è coincisa con l’esplodere della pandemia. E tante volte in questi giorni, in cui ero aggiornato dagli amici sulle sue condizioni, ho provato ad immaginare cosa avrebbe pensato, lui che riconduceva tutto al pensiero, di questa crisi.

Sicuramente ci avrebbe raccontato nei dettagli l’una o l’altra delle tante pandemie di cui è costellata la storia umana. Oppure ci avrebbe edotto sui più sconosciuti (per noi) aspetti della cultura cinese, che conosceva in maniera non superficiale.

Sarebbe stato un ristoro ascoltare le sue riflessioni, sicuramente fuori dal coro e sicuramente non banali come quelle di tanti intellettuali à la page.

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