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Hamas

Quel languorino di lodo che serpeggia tra Italia e Hamas

L'intervento di Gregory Alegi, storico e giornalista, docente alla Luiss Guido Carli.

«L’Italia è partner nell’aggressione contro il nostro popolo, dal momento che purtroppo ha scelto la destra, la parte destra della storia.» Parola di Basem Naim, intervistato da RaiTre per Agorà, con valutazioni tanto dure da sconfinare nella minaccia. «Possiamo soltanto dire che la comunità internazionale ha la stessa responsabilità di Israele in tutte le stragi commesse contro il nostro popolo», dice Naim. Sottinteso: a suo rischio e pericolo, come dimostra la mobilitazione contro Israele di arabi e islamici nelle città europee. Per evitarlo, sembra dire il ministro degli esteri di Hamas, basta scaricare Israele.

Novità? Non proprio. L’abbandono di Israele fu il punto centrale degli accordi che molti paesi europei raggiunsero con l’OLP di Yasser Arafat nei primi anni Settanta per fermare la sua offensiva terroristica. In cambio della libertà di movimento in Europa, i terroristi palestinesi avrebbero evitato ai Paesi aderenti dirottamenti, bombe sugli aerei e attentati di vario genere. Noto in Italia come “lodo Moro”, l’accordo era sostanzialmente analogo in altre nazioni, che si trasformavano così in base per attaccare Israele.

C’era una volta il lodo

Come tutti i patti scellerati, il lodo, negoziato per conto del ministro degli Esteri Moro dal colonnello Stefano Giovannone, non fu mai messo per iscritto. Ciononostante, ne residuano ampie tracce nei messaggi sempre più frenetici che Giovannone, capo centro del SISMI a Beirut, inviò a Roma per gestire la crisi scaturita dall’arresto di tre autonomi romani con un carico di missili SA-7 Strela. «Non sono per le Brigate Rosse, ma per i palestinesi e quindi sono coperti dagli accordi», dissero i tre agli allibiti e ignari carabinieri di Ortona. Era il 7 novembre 1979. Nei mesi successivi, i palestinesi premettero sempre più forte su Giovannone per ottenere il rilascio di Abu Saleh (il contatto a Bologna con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, FPLP, arrestato pochi giorni dopo) e la restituzione dei missili antiaerei (o almeno 60.000 dollari di rimborso). Era un’aspettativa ragionevole. Così era accaduto con due terroristi arrestati nell’aprile 1973 a Fiumicino con bombe e pistole e liberati già in agosto; con cinque terroristi fermati a Ostia nel settembre 1973 con alcuni Strela, sembra per un attentato contro l’aereo di Golda Meir: due furono liberati il 30 ottobre e gli altri al più tardi nel marzo 1974. Nell’aprile 1976 tre libici arrestati a Fiumicino con tre pistole e una bomba furono scambiati contro tre italiani che la Libia aveva arrestato per spionaggio. Persino i dirottatori-attentatori che il 17 dicembre 1973 uccisero 32 persone a Fiumicino furono liberati un anno dopo dall’Egitto in cambio degli ostaggi di un volo British Airways.

Perché, quindi, non poteva essere liberato Saleh e restituiti gli Strela?

A distanza di anni, sembra chiaro che il rapimento Moro aveva acuito la sensibilità riguardo i contatti tra terrorismo internazionale e interno, anche sotto il profilo della responsabilità di quanti lo avevano più o meno inconsapevolmente consentito. Prevalse così l’idea che il transito di armi, a chiunque destinate, violasse il Lodo; per tutta risposta, il FPLP minacciò di disconoscerlo e, implicitamente, agire contro bersagli italiani.  Sta di fatto che Saleh rimase in carcere e i missili non furono restituiti, facendo montare la rabbia del FPLP. Nel maggio 1980 Giovannone, sempre più stretto tra le pressioni palestinesi e l’irrigidimento italiano, scrisse di non poter più garantire la sicurezza del personale dell’ambasciata. La mattina del 27 giugno comunicò che il FPLP intendeva riprendere la libertà d’azione, senza preavviso. Quella stessa sera, il DC-9 Itavia in servizio tra Bologna e Palermo cadde presso Ustica, con la morte di 81 italiani. “Correlation is not causation”, ammoniscono i logici, e le evidenze di bomba certificate all’unanimità dal collegio peritale Misiti non stabiliscono, in sé, una responsabilità. Però …

Una sfida diversa

Certo, il 2023 non è il 1980.  Allora, l’OLP di Arafat mirava voleva distruggere Israele e riprendere le terre perdute, ma senza puntare alla costruzione di uno stato islamico. Oggi Hamas è un’organizzazione terroristica sunnita, sostenuta apertamente dall’Iran fondamentalista e legata alla costruzione di uno stato islamico del tutto analogo a quello dell’ISIS. Altri appoggi giungono dal Qatar (che però smentisce tale diffuso convincimento, che sostiene di aiutare direttamente il popolo di Gaza) e persino dalla Turchia (il cui presidente Erdogan è legato ai Fratelli Musulmani, dal cui ramo palestinese è nata Hamas).

Insomma, l’OLP ce l’aveva solo con Israele, mentre Hamas prende di mira l’intero Occidente. Se ampiezza delle ambizioni e prospettiva politica sono ben diversi, in linea di principio ciò non impedisce però a Hamas di ricorrere a un metodo che ha già funzionato in passato, o anche solo di farne balenare la possibilità.

Di qui le minacce più o meno velate e l’implicita promessa di evitare attacchi abbandonando Israele e gli ebrei al loro destino. Ecco così che per Hamas il nostro paese diventa «una delle parti nell’aggressione contro il nostro popolo. «Israele non agisce da solo ma per conto di Germania, Gran Bretagna, Usa, Francia e purtroppo anche dell’Italia che ha inviato alcune truppe nel Mediterraneo», ha detto Naim su RaiTre. Lette sullo sfondo degli eventi del 1973-82 (quando, è bene ricordarlo, un commando palestinese assaltò la Sinagoga di Roma, uccidendo un bambino), le parole di Naim sembrano riproporre il Lodo. Per evitare che le manifestazioni pro-Palestina sfocino nella violenza, si legge tra le righe della sua dichiarazione, l’Italia dovrebbe prendere le distanze da Israele, isolandolo sempre più.

Un giro di valzer?

Stare dalla “parte destra della storia”, la quasi incomprensibile accusa lanciata da Naim, rimanda al titolo del controverso libro nel quale l’intellettuale conservatore americano Ben Shapiro chiamava a difendere i valori della cultura giudaico-cristiana alla base dello sviluppo e del successo del mondo occidentale. La rapida identificazione dell’ebreo come capro espiatorio è il primo segnale di come la pressione per razionalizzare e minimizzare la portata della sfida di Hamas abbia facile presa sull’opinione pubblica. Nell’attuale galassia pro-palestinese italiana non è difficile rintracciare – insieme a persone indubbiamente in buona fede – anche i discendenti di quanti negli anni di piombo definivano i terroristi “compagni che sbagliano”, di quanti si trinceravano dietro un gesuitico “Né con lo Stato né con le BR” o davanti al rapimento di Moro chiedevano di arrendersi (pardon, “trattare”).

Ma anche in questo caso, la situazione non è più esattamente quella del 1973. Un po’ perché le conseguenze impreviste del Lodo hanno insegnato qualcosa, un po’ perché Israele è oggi uno strettissimo partner della difesa e sicurezza italiana, un po’ perché la percezione del disegno totalitario di Hamas inizia a farsi strada. Nell’attuale contesto globale, insomma, non è automatico che le minacce di Hamas trovino orecchie altrettanto attente di quelle che mezzo secolo fa prestarono loro Moro, Giovannone e chissà, forse persino Francesco Cossiga, che nel 1979-80 era addirittura presidente del Consiglio.

Un conto è cancellare per necessità l’esercitazione aerea Blue Flag, in origine prevista in Israele in novembre, un altro è inviare a Gaza un indispensabile ospedale da campo, un altro ancora un giro di valzer di sapore badogliano. O almeno così si spera.

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