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Giorgetti

Le ultime dalemate di D’Alema su Draghi e Quirinale

Che cosa dice e fa capire Massimo D'Alema sul Quirinale. I Graffi di Damato

 

Anche se la notizia prevalente nelle cronache della corsa al Quirinale è o sembra essere quella delle “prove di addio” a Silvio Berlusconi attribuite a Matteo Salvini dal titolone di prima pagina di Repubblica, ma pure da altri giornali, è Massimo D’Alema a meritare secondo me la maggiore attenzione per una sua lunga intervista al manifesto. Che Andrea Carugati ha raccolto fra gustose annotazioni di colore come quella dei soliti “origami” che l’ex presidente del Consiglio “tortura” quando parla e riflette, o l’accenno a una “missione” internazionale all’Artico cui l’ex ministro degli Esteri sta lavorando per “demilitarizzare il polo nord”. Almeno il polo nord, direi, dopo la militarizzazione della sinistra italiana che egli ha recentemente tentato lamentandone una sostanziale rassegnazione al “draghismo”.

In quest’ultimo anche al manifesto D’Alema ha indicato, come da titolo nell’intera pagina interna che gli è stata dedicata, “un’esplosione di spirito antidemocratico”, sottolineato col colore rosso dal quotidiano ancora orgogliosamente comunista. Ma in rosso allarme, diciamo così, è anche la parte pur meno vistosa del titolo di prima pagina in cui si fa dire allo stesso D’Alema che “il lavoro di Draghi al governo non è finito”, né andrebbe interrotto.

Come si concilino i due concetti è francamente difficile capire e tanto meno spiegare. Nè si può sospettare qualche forzatura del titolo riassuntivo di prima pagina perché il testo delle dichiarazioni di D’Alema è conforme. “Il premier -ha detto, in particolare, l’intervistato- svolge efficacemente il suo ruolo internazionale spendendo la sua forte credibilità, a Bruxelles e con gli Stati Uniti. Sul lato interno fa il possibile con una maggioranza contraddittoria e inevitabilmente divisa, cerca i compromessi possibili. Fa politica quindi misurandosi con una realtà rispetto alla quale non esistono superpoteri in grado di produrre soluzioni miracolistiche”. Meglio forse neppure Draghi avrebbe potuto e potrebbe dire di se stesso, dopo avere sottolineato nella sua ultima conferenza stampa una certa “voglia di lavorare insieme” che avrebbero ancora i partiti pur così diversi della sua maggioranza di emergenza o unità nazionale.

Ma D’Alema è andato anche oltre cercando di immaginare l’esito della corsa al Quirinale e i suoi effetti sul governo. “Non vedo -ha detto- la possibilità di una maggioranza ristretta. E mi pare difficile mantenere una maggioranza larga senza Draghi. Non è un compito facile arrivare al 2023”, cioè sino alla scadenza ordinaria della legislatura,”se il premier viene eletto al Quirinale”. Per cui sarebbe preferibile lasciare Draghi a Palazzo Chigi per fargli completare il lavoro “non finito”, come dall’occhiello rosso del titolo di prima pagina già accennato. Che poi con questo ragionamento D’Alema si trovi d’accordo, volente o nolente, con Silvio Berlusconi non può neppure stupire più di tanto se si pensa agli anni di sostanziale avvio della cosiddetta seconda Repubblica, quando il compianto Giampaolo Pansa raccontava settimanalmente sull’Espresso le avventure del mitico “Dalemoni”, mezzo D’Alema e mezzo Berlusconi appunto: accomunati anche nell’esperienza della commissione bicamerale per le riforme costituzionali in coincidenza col primo e sfortunato governo ulivista di Romano Prodi.

Due parole infine sulla proposta di D’Alema, sempre nell’intervista al manifesto, a favore di una soluzione di genere della corsa al Quirinale, con l’elezione cioè di una donna. Potrebbe essere -scusate la franchezza o la malizia- l’ultimo colpo a questa chance, dopo quello già infertole da Giuseppe Conte.

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