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Draghi

Cosa ha detto e cosa non ha detto Draghi (che studia il Quirinale)

La conferenza stampa del presidente del Consiglio, Mario Draghi, vista da Maria Cristina Antonucci, docente di Comunicazione e Politica presso l’Università La Sapienza di Roma

 

La conferenza stampa di ieri sera dell’autoproclamato “nonno al servizio delle istituzioni” sembra orientata a mantenere l’immagine, severa ma rassicurante, evocata nel corso del precedente incontro con i mass media, per gli auguri di Natale, in cui si è palesata l’auto-candidatura al Quirinale.

La scelta delle tematiche da affrontare è sembrata rispondere ad un preciso piano di rassicurazione dell’opinione pubblica: attenzione verso le grandi difficoltà dei giovani, preoccupazione per il dilagare dell’epidemia, urgenza di non fermare le attività economiche.

Tutti temi “severi ma giusti”, in grado di fornire adeguate rassicurazioni a quel ceto medio riflessivo che, ormai da troppo tempo, è abituato ad assumere dosi di precauzione e cautela nei confronti della realtà da parte del mainstream mediatico.

In termini di lessico, questa selezione tematica sembra appigliarsi a due parole chiave, impiegate con una certa frequenza nel lessico draghiano ma inusitate nella sua lingua politica: la fiducia e la crescita.

Due termini rassicuranti, che profumano di un futuro condivisibile per tutti quei cittadini che, piagati da due anni di pandemia, desiderano solo affidarsi all’idea di un miglioramento prossimo. Due parole chiave volte ad accreditare l’idea che il Presidente del Consiglio sia una figura in grado di mobilitare, con questo anelito di speranza (minuscolo), il sostegno popolare verso l’unico obiettivo che egli riserva nel suo cuore ma che non riesce a pronunciare pubblicamente: il Colle più alto. Lungi dal voler fare dietrologie psicanalitiche sul perché di questa tattica, occorre rilevare come essa emerga in misura direttamente proporzionale alle difficoltà di gestione della compagine governative. Più la coalizione rende difficile l’azione di governo, anche in ragione delle note vicende quirinalizie, più si deve dissimulare l’istinto di Draghi verso il Colle, inteso come doppia risoluzione: delle fatiche del Presidente del Consiglio, abituato ad istituzioni politiche a differente tasso di funzionamento e coesione, e del sistema paese, verso un equilibrio nuovo di superamento della democrazia parlamentare e di presidenzialismo in re ipsa.

In termini formali, infine, il plot twist dell’intera conferenza stampa, asseverata da regole rigidissime circa l’ammissione di giornalisti e l’irricevibilità di domande sul Quirinale, avviene alla fine: con il più sardonico dei sorrisi, Draghi rileva come non sia intervenuto al termine del Consiglio dei Ministri per comunicare le nuove norme poste in Decreto Legge perché aveva “sottovalutato le attese” e si scusa, pregando i giornalisti di considerare l’attuale conferenza stampa come “un atto riparatorio”. Un siparietto che sembra congegnato da uno staff di comunicazione, che ha sicuramente le sue difficoltà nel cercare di rendere empatico l’ex banchiere centrale.

Se invece si passa ad analizzare il senso politico del discorso di Draghi, l’operazione di marketing presso i grandi elettori partitici e parlamentari mostra tutte le difficoltà del caso, soprattutto nel confronto con le domande dei professionisti dei mass media ammessi alla conferenza stampa. Focalizzazione sul vaccino come chiave unica per uscire dalla pandemia, colpevolizzazione espressa della minoranza di non vaccinati in relazione alla prosecuzione della pandemia, aperturismo come esigenza di non vedere chiuse le attività economiche (nonostante i cali di fatturato e le crescenti spese legate ad energia ed inflazione) si pongono come risposte incompiute in termini di politica interna e isolate in termini di confronto con le differenti risposte realizzate da altri governi ai medesimi problemi. Una strategia politica legata ad un doppio binario: aperture a tutti i costi (dai cinema semivuoti ai negozi in difficoltà anche in periodo di saldi) con regole sempre variabili e di difficile applicazione per gestori, esercenti e cittadini e vaccinazione tendenzialmente obbligatoria, in assenza di protocolli terapeutici precoci e differenti per chi, vaccinato o meno, si ammali.

Una strategia che poteva sembrare illuminata sei mesi fa, ma che oggi manifesta più di un interrogativo, soprattutto ove la si confronti con la realtà di altri sistemi europei, in cui non vi è la centralità dei diversi formati di green pass per regolare la vita economica, giuridica e sociale dei cittadini, e in cui, con un mix di vaccinazione non obbligatoria e terapie si cerca di giungere con modalità diverse al superamento della crisi sanitaria.

Un approccio diverso su cui pure il Presidente del Consiglio viene sollecitato da un giornalista inglese, che propone un confronto sulle strategie di UK e Italia per l’uscita dalla pandemia, e che si vede rispedita al mittente la domanda senza fornire una risposta plausibile. È forse questa la principale difficoltà che l’esperienza di Draghi alla Presidenza del Consiglio e la candidatura silente al Quirinale si trovano ad affrontare: una limitata pratica sul campo delle regole della politica democratica nei sistemi parlamentari – intesa come confronto e sintesi – cui si contrappone il mito del decisionismo centralista, che dovrebbe portare risposte immediate alle soluzioni di crisi.

Se il decisionismo non funziona nei fatti (i numeri della pandemia lo dichiarano apertamente, nonostante l’evocazione del nemico oggettivo), la difficoltà nella gestione del confronto con i partiti della coalizione diventa l’elemento debilitante della strategia del Presidente del Consiglio per continuare a governare o diventare Presidente della Repubblica. Perché, come scriveva Pietro Scoppola in un libro troppo presto dimenticato, nel bene e nel male, l’Italia è la Repubblica dei partiti, non il sistema politico del decisionista solo al comando.

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