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Giorgetti

Le ultime bettinate di Bettini che frastornano il Pd di Letta

I Graffi di Damato

E’ tornato Goffredo Bettini, se mai si fosse davvero allontanato dalla sua passione per la politica il noto esponente del Pd, consigliere di più segretari, scopritore di talenti capitolini veri o presunti, l’uomo ponte più solido, anche per la sua stazza fisica, col MoVimento 5 Stelle presieduto ora dal suo amico Giuseppe Conte. Per il quale egli era pronto a “morire” pur di conservarlo a Palazzo Chigi nell’ultima crisi facendogli fare il terzo governo di questa legislatura. Ma toccò invece a Mario Draghi, imposto più che scelto al Parlamento dal Quirinale per le tre crisi che ormai si erano intrecciate fra loro per la sostanziale pratica dei rinvii e delle indecisioni del precedente inquilino di Palazzo Chigi. Che si era ridotto a spendere i suoi ultimi giorni a ricevere personalmente senatori dall’ormai incerta identità e collocazione per cercare di arruolarli in una maggioranza finalizzata solo a rompere le reni a Matteo Renzi, come Mussolini diceva della Grecia non riuscendovi neppure lui, almeno da solo come si era prefisso di fare.

Nel suo ritorno sulla scena, naturalmente alla festa annuale del Fatto Quotidiano, in un confronto diretto o a distanza con Pier Luigi Bersani, il ministro e capo della delegazione pentastellata al governo Stefano Patuanelli e la sindaca di Torino Chiara Appendino, moderati – si fa per dire, cioè per ossimoro-  da Andra Scanzi, lo scamiciato Bettini ha detto, testualmente: “Io sono contrario alla formula secondo cui “il mio governo” e il suo programma è il nostro programma, perché nell’esecutivo le forze di maggioranza sono divise su tutto, dall’economia ai vaccini, alla politica internazionale”.

Ma con chi ce l’aveva, in particolare, Bettini non riconoscendosi praticamente nel governo Draghi, o pronto solo a considerarlo, nella migliore delle ipotesi, “il governo amico” che da segretario della Dc Amintore Fanfani definì nel 1953 quello che aveva appena nominato l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi? Che si era stufato di aspettare, peraltro in pieno agosto, che le correnti democristiane si accordassero ben bene sul dopo-De Gasperi, avendo già impallinato sulla strada del Viminale, dove allora lavorava anche il presidente del Consiglio, e non solo il ministro dell’Interno, il fedele e buon Attilio Piccioni, più maturo dell’ancor troppo giovane Giulio Andreotti.

Con chi ce l’aveva Bettini? Chiedevo. Ma col segretario del Pd Enrico Letta, che considera tanto “suo” o “nostro” il governo Draghi da reclamare l’uscita dal governo e dalla maggioranza di Matteo Salvini ad ogni starnuto di dissenso o di distinguo. Che Bettini mostra invece di considerare più realisticamente qualcosa di prevedibile e quasi ordinario, data la natura particolare dell’attuale maggioranza. Alla quale egli sogna, scommettendo non so se più sulla bravura degli amici e compagni o sugli errori o la dabbenaggine del centrodestra, che dopo l’elezione di Draghi al Quirinale potrà finalmente realizzarsi “il fronte M5S-sinistra”, si vedrà se con o senza un preventivo passaggio elettorale. Parole di Bettini, condivise “al 95 per cento” da Patuanelli, secondo la precisazione dell’interessato, e titolo promozionale in prima pagina del giornale di Travaglio.

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