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Germania

Vi racconto le sintonie di Angela Merkel con Pechino a Davos

Cosa ha detto al Forum di Davos la cancelliera Merkel a proposito di Pechino. L'analisi di Federico Punzi, direttore editoriale di Atlantico Quotidiano

Abbiamo analizzato l’intervento del presidente cinese Xi Jinping al World Economic Forum, quest’anno in videoconferenza, evidenziando, a differenza della maggior parte dei commentatori, come fosse prevalente la proposta di un “grande reset” con gli Stati Uniti dopo i burrascosi anni di Trump. Certo in termini di sfida, di velata minaccia, incolpando Washington per lo stato attuale dei rapporti, ma non è stato un discorso da “Guerra Fredda”, quanto piuttosto una esortazione a evitarla, esponendo le condizioni cinesi per tornare allo status quo ante Trump.

Nessuno ha voglia di una nuova Guerra Fredda. Non Xi Jinping, non Biden, tanto meno come vedremo la Merkel (quindi l’Europa). Ora, c’è da capire come chiudere la fase del confronto, inaugurata quattro anni fa da Donald Trump, e tornare ad una competizione cooperativa, se non ad un vero e proprio engagement, senza che nessuno ci perda la faccia.

E abbiamo provato ad abbozzare una prima ipotesi sulla strategia che adotterà nei confronti di Pechino la nuova amministrazione Usa, se prevarrà o meno la continuità, e in che dosi, con la linea dura della presidenza Trump, apprezzata dal nuovo segretario di Stato Blinken durante la sua audizione di conferma al Senato.

La nostra ipotesi di studio è che l’amministrazione Biden cercherà di tenere in vita una narrazione ostile, o almeno molto assertiva sulla Cina – e a questo scopo giocherà su tutte la carta dei diritti umani – essenzialmente per motivi di politica interna, cercando invece di sviluppare una manovra avvolgente al fine di coinvolgere Pechino nella governance globale, ma responsabilizzandola e strappandole una maggiore reciprocità nei rapporti economici e commerciali con l’Occidente. Il riequilibrio che con le maniere forti aveva cercato di ottenere Trump prima che la pandemia spazzasse via tutto.

Abbiamo però elencato tre motivi per cui a nostro avviso questo approccio è destinato al fallimento.

Uno di questi è l’Europa, e in particolare la sua potenza leader, la Germania, la cui economia è molto esposta alla Cina. Il ceo di Volkswagen, Herbert Diess, che ha negato di essere a conoscenza della repressione degli uiguri nello Xinjiang, è arrivato a sostenere che sia più facile per le compagnie tedesche investire in Cina che per quelle cinesi investire in Germania.

Il discorso della cancelliera Angela Merkel a Davos, da qualcuno erroneamente letto come la risposta occidentale a Xi o la versione europea del multilateralismo, ha infatti dimostrato come l’Ue a guida tedesca sia l’anello debole di qualsiasi strategia americana verso Pechino. Lo è stata con Trump e promette di esserlo anche con Biden.

Dopo la breve stagione trumpiana, il multilateralismo è tornato ad essere la parola sulla bocca di tutti. Ciascuno lo intende a suo comodo, ma il concetto è sempre più svuotato di sostanza. Tranne che per Xi Jinping, per gli altri leader sembra un paravento utile a nascondere immobilismo e assenza di visione strategica. Chi non fa professione di multilateralismo – al pari di chi non si professa europeista – viene ormai trattato da appestato, ma i due principi non sono ormai che scatoloni vuoti, quando non riempiti di merce avariata.

Sul tasto del ritorno al multilateralismo ha battuto il leader cinese, sperando di trovare ascolto nell’amministrazione Biden, che intende fare proprio del multilateralismo l’architrave della sua politica estera.

“È tempo di multilateralismo”, gli ha fatto eco la Merkel: la pandemia ha evidenziato “il significato della globalizzazione” come “interdipendenza”, dimostrando che “provare a isolarsi è un fallimento”. “Chiudersi non serve”, bisogna avere una “mentalità aperta”.

Se trovate quanto meno stonate queste parole, quando da mesi proprio a causa della pandemia non fanno altro che rinchiuderci, sappiate che non siete i soli. I cittadini sono chiusi in casa, molte attività chiuse, ma anche gli stati sono “chiusi”. Proprio in questi mesi ci è stato spiegato che “chiudersi”, a tutti i livelli – dentro le nostre case così come dentro i nostri confini – serve eccome a contrastare la pandemia.

E la pandemia ha anche dimostrato che non serve far parte di una unione politica continentale, di un superstato multinazionale, per organizzare bene una campagna di vaccinazione di massa. Regno Unito e Israele hanno dimostrato che proprio in un mondo globalizzato, “piccolo” può significare più efficiente. Ironia della sorte, a modo loro i leader più “unilaterali”, Trump, Johnson e Netanyahu, sono stati i più veloci a procurarsi i vaccini e ad iniziare a vaccinare la popolazione dei loro Paesi. Ma questo sarà tema, semmai, per un altro articolo.

Tornando alla Merkel, non è stato molto “multilaterale” da parte della cancelliera tedesca sbrigarsi a chiudere l’accordo sugli investimenti con Pechino prima dell’insediamento dell’amministrazione Biden, prima cioè di poterne discutere con l’alleato americano. Un messaggio fin troppo chiaro: rimarcare l’autonomia europea, l’Ue a guida tedesca vuole fare da sola, senza tutori. Ci sarebbe poi molto da discutere su un accordo che ad un primo sguardo sembra cucito sugli interessi tedeschi, fatti coincidere con quelli di tutti i Paesi europei.

A Pechino qualche buffetto la Merkel lo ha tirato, sui diritti umani e sulla mancanza di trasparenza nelle prime settimane di diffusione del nuovo coronavirus, aggiungendo subito che “non si deve guardare soltanto indietro, ma anche avanti”, e lodando la decisione del presidente Biden di restare nell’Oms.

Uno dei pilastri dichiarati della nuova strategia Usa verso la Cina consiste nel recuperare il rapporto con gli alleati europei (e dell’Indo-Pacifico) per fare fronte comune, una sorta di alleanza delle democrazie che sia in grado di competere e negoziare più efficacemente con Pechino.

Nonostante una vaga disponibilità espressa da Bruxelles a lavorare insieme agli Usa sul dossier Cina, al Forum di Davos la cancelliera Merkel ha invece bocciato l’idea di un fronte comune di democrazie per interloquire con Pechino: “Vorrei molto evitare la formazione di blocchi”, ha detto allineandosi alle parole del giorno prima del presidente cinese, quando aveva diffidato Washington dal “costruire piccoli circoli”. La cancelliera non ha lasciato spazio a dubbi:

“I don’t think it would do justice to many societies if we were to say this is the United States and over there is China and we are grouping around either the one or the other. This is not my understanding of how things ought to be”.

“Fare gruppo” con gli alleati è esattamente ciò che vorrebbe l’amministrazione Biden. Al contrario, per la Merkel sembra che l’Europa non debba schierarsi tra Usa e Cina e che proprio nei rapporti con Pechino, l’Ue debba affermare la sua “autonomia strategica”. Ma è un azzardo, come abbiamo sottolineato più volte su Atlantico Quotidiano.

Non si può infatti non vedere come la strategia di lungo termine della leadership cinese sia focalizzata nel trasformare l’Europa in un blocco politicamente non allineato. Una sorta di “Grande Svizzera”, economicamente rilevante, ma neutrale.

In questo scenario, da cui da anni cerca di mettere in guardia Henry Kissinger, gli Stati Uniti si troverebbero isolati nel contenere la Cina, mentre dominando l’Eurasia, Pechino potrebbe riplasmare a sua immagine e somiglianza l’ordine globale e l’Ue non sarebbe che una rete di stati vassalli inconsapevoli della loro dipendenza, dal momento che non avrebbero né la forza né la capacità di resistere da soli alla Cina.

Un’America ostile sostenuta dai suoi alleati rappresenta agli occhi della leadership cinese quanto di più minaccioso per le sue ambizioni egemoniche. E, d’altro canto, in Eurasia gli Stati Uniti non hanno alleati più importanti dell’Europa.

E questo spiega il linguaggio usato da Xi Jinping a Davos, sia nel 2017 che oggi confezionato appositamente per essere recepito da orecchie europee. Il suo obiettivo non è diventare il faro dei valori liberali. Adottare il linguaggio delle élites globaliste di Davos, sposare la causa del multilateralismo e della globalizzazione, unirsi ai leader europei come Angela Merkel nella difesa dell’ordine internazionale liberale contro il ritorno del nazionalismo, come nel 2017, dopo la vittoria di Brexit e di Trump, è tutto strumentale a separare l’Europa dagli Stati Uniti (e dalla Gran Bretagna).

È un disegno talmente evidente, che la Cina non fa mistero di sostenere l’idea di “autonomia strategica” dell’Ue. A sgombrare i dubbi ci ha pensato di recente il ministro degli esteri Wang Yi, quando alla sua controparte francese ha spiegato che Pechino sostiene lo sforzo dell’Europa “a stare da sola come un polo del mondo”. E che “questa, da parte cinese, non è una posizione temporanea, ma un pensiero strategico permanente”.

Come spiega Peter Rough dell’Hudson Institute, coerentemente con il suo obiettivo Pechino ha lavorato ai fianchi l’Europa con una duplice strategia economica. Primo, approfittando della globalizzazione, si è inserita nell’economia europea, creando dipendenza. Secondo, sta manipolando quelle dipendenze per svuotare e soppiantare le economie avanzate dell’Europa. Per coprire questo inganno, ha messo su una vasta rete politica in tutto il Continente, da semplici simpatizzanti a vere e proprie “spie”.

Con la sua industria così esposta, non è un caso che Berlino veda nella Cina la chiave per la ripresa post-pandemia e la crescita economica. E Xi ha sfruttato questa dipendenza per chiudere l’accordo sugli investimenti, il cui scopo principale è evidentemente quello di giocare d’anticipo sulla nuova amministrazione Usa cercando di impedire un approccio transatlantico alla questione cinese.

 

Articolo pubblicato su atlanticoquotidiano.it

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