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Le convulsioni degli ultimi macroniani d’Italia

Da Brenno a Macron, da “Guai ai vinti” a “Guai ai vincitori”. I Graffi di Damato.

Nel lontano, anzi lontanissimo 390 avanti Cristo un tale Brenno passò inconsapevolmente alla storia grazie a Tito Livio, che ne raccontò il grido “Guai ai vinti”. Col quale il condottiero gallo capo dei Senoni, progenitori dei marchigiani, accompagnò il lancio della sua spada sulla bilancia che pesava l’oro nella Roma da lui saccheggiata.

In questo 2024 dopo Cristo, secondo anno scarso angosciosamente vissuto sotto il governo di Giorgia Meloni dagli avversari di varie sfumature cromatiche, dal rosso al grigio, un gallo ancora più a nord delle Marche – Emmanuel Macron, o Micron, come ha scherzato il direttore di Libero Mario Sechi – ha gridato o vorrebbe gridare “Guai ai vincitori”. Ai quali il presidente della Repubblica di Francia ha cercato di sbarrare la strada con le elezioni anticipate dopo una prima scoppola presa da destra nelle europee dell’8 e 9 giugno.

Va detto tuttavia che non si riesce più a capire bene chi sia più Brenno al rovescio fra Macron e certi suoi tifosi al di là e al di qua delle Alpi, visto che il presidente francese, per quanto lo riguarda personalmente nell’esercizio delle sue funzioni, è disposto, pronto, costretto in fondo senza disperazione a “coabitare” – si dice così nel gergo politico francese – con una destra alla guida del governo. Cui Marine Le Pen, riservandosi di ritentare personalmente la scalata all’Eliseo, ha candidato il giovane oriundo italiano e algerino Jordan Barbella. Con un certo successo, direi, nel primo turno elettorale di domenica scorsa.

Fra i macroniani in qualche modo più intransigenti, allarmati e quant’altro al di qua delle Alpi per quanto potrà accadere in Francia e, più in generale in Europa, dopo il secondo e conclusivo turno elettorale di domenica prossima ha voluto distinguersi sul Foglio fondato da Giuliano Ferrara, cui ho avuto il piacere e l’onore di collaborare in anni ormai lontani, il direttore Claudio Cerasa. Che ha messo la sua ciliegina sotto questa conclusione di un lungo a articolato ragionamento: “Giorgia Meloni con superficialità ieri ha detto che tra la sinistra e la destra lei preferisce sempre la destra, anche estrema, non capendo però che in Francia non c’è in ballo una sfida tra poli ma c’è una scelta più complessa: credere oppure no che rimettere in discussione le coordinate essenziali di una democrazia liberale possa essere un’opzione per un grande paese europeo, proprio come sogna da anni Vladimir Putin. Il punto è tutto qui: accettare o combattere?”.

La premier italiana, capa della destra nazionale e dei conservatori europei, farebbe quindi il gioco di Putin, pur essendo tenacemente impegnata, in continuità col predecessore Mario Draghi a Palazzo Chigi, a contrastare la guerra della Russia all’Ucraina in corso da più di due anni. Farebbe il gioco del Cremlino perché non si strappa capelli, vestiti e quant’altro per l’avanzata elettorale della destra francese. Ma se ne compiace, sia pure non allo stesso livello del suo vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini. Ed esorta a “non demonizzare” chi è di destra, o semplicemente – perché accade anche questo – chi non è di sinistra o non vota in quella direzione. Una demonizzazione che ritengo personalmente stia facendo votare a destra per tigna, come si dice a Roma, un certo, crescente numero di elettori.

Per arrivare anche lui alla drammatizzazione di uno scenario elettorale e politico spostato a destra il buon Cerasa ha voluto per una volta dissentire anche da un “formidabile” editorialista americano solitamente da lui condiviso: Gideon Rachman. Che ha appena esortato i lettori del Financial Times a “non perdere la calma” per quanto è accaduto, sta accadendo e potrà ancora accadere elettoralmente sulle due rive dell’Atlantico perché la democrazia è più forte dei “populisti” che la insidiano. E che si trovano – non dimentichiamo neppure questo – anche a sinistra, non solo a destra, per fermarsi ad esempio in Francia a Jean-Luc Melenchon, senza spingersi in Italia a quel Giuseppe Conte promosso dal Pd di Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini quattro anni fa al “punto di riferimento più alto dei progressisti”. Che se ne sono fidati a tal punto da avere ridotto i grillini ad una sola cifra elettorale.

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