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Whitman

L’America falsamente dorata di Mark Twain e Walt Whitman

Il Bloc Notes di Michele Magno

Storicamente repubblicani, dopo la guerra civile americana (1861-1865) nelle cui ragioni si erano identificati, gli intellettuali liberali della élite colta e patrizia, settentrionale e metropolitana, si considerarono sempre più degli “indipendenti”. Di fronte agli scandali che avevano segnato le due amministrazioni di Ulysses Grant (1869-1877), cominciarono a chiedersi quale nazione fosse uscita da quella guerra sanguinosa, e la loro risposta fu un brivido di orrore. Nella sua Ode al Quattro Luglio (1876), il poeta James Russel Lowell diede voce a questi sentimenti: “È questo il paese che abbiamo sognato in gioventù/ Dove la saggezza e non i numeri avrebbe avuto peso,/ Terreno di semina di maniere più semplici, di verità più audaci,/ Dove la vergogna avrebbe cessato di dominare/ Nelle case, nelle chiese e nello stato?/ È questa Atlantide?”.

I “Liberal Reformers”, come furono chiamati, avviarono così una critica radicale della democrazia di massa, in cui proliferavano politici di professione semianalfabeti e volgari, e burocrazie di partito dedite al saccheggio delle risorse pubbliche, che stritolavano -attraverso lo “spoils system”- i cittadini onesti con la loro avidità di cariche pubbliche e di prebende di vario tipo.  Erano gli anni in cui Mark Twain raffigurava Washington come una città nella quale i membri del Congresso avevano una fama talmente desolante che gli affittacamere pretendevano il pagamento anticipato della pigione. The Gilded Age (1873), il suo romanzo satirico scritto in collaborazione con Charles Dudley Warner, diventò il simbolo beffardo di un’intera epoca: non dell’oro, ma falsamente dorata.

Anche un poeta come Walt Whitman, il cantore del “sogno americano”, non nascose la sua inquietudine per “lo spettacolo allarmante dei partiti che usurpano il governo, partiti selvaggi e voraci”. Fino a lanciare, in Democratic Vistas (1871), un appello accorato: “Disimpegnatevi dai partiti. Sono stati utili, e in qualche misura lo rimangono; ma sono [….] gli agricoltori e gli impiegati e i lavoratori i padroni dei partiti, [….] sono loro di cui abbiamo più bisogno, ora e nel futuro. Conviene non mettersi nelle mani di nessun partito, non sottomettersi ciecamente ai loro dittatori”. Il linguaggio di Whitman era diverso da quello dei riformatori liberali, che per lui erano “dilettanti e damerini”, ma il rimedio suggerito era identico.

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Nel saggio “Von Deutscher Baukunst” (Dell’architettura tedesca, 1773), Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) aveva aspramente criticato quanti “misurano invece che sentire”, a cui era precluso l’accesso alla vera sorgente dell’esperienza artistica, che può scaturire solo dall’emozione disinteressata e libera da qualsiasi intellettualismo. Dal canto suo, sulla falsariga del grande drammaturgo tedesco, il letterato e storico dell’arte Francesco Galeani Napione (1748-1830) ammoniva: “Il giudicio di un occhio dotto, ed esercitato, sia più superbo quanto più dilicato di qualunque compasso e misura” (Monumenti dell’architettura antica, 1820).

Naturalmente, non solo gli ingegneri e gli architetti, ma anche i cartografi non erano d’accordo. Per Antonio Genovesi (1712-1769), titolare della prima cattedra di economia politica in Europa, era scandaloso che il Regno delle Due Sicilie ignorasse i suoi confini. La produzione cartografica non poteva quindi prescindere dalla definizione di “misure certe” per superare questa lacuna. L’illuminista partenopeo non poteva però immaginare che, grazie al progresso tecnologico, nel  nuovo secolo anche gli strumenti topografici più comuni -teodoliti, barometri, livelle e sestanti- sarebbero divenuti assai più esatti e affidabili. Né poteva immaginare che a tali strumenti si sarebbe affiancata la tecnica incisoria della litografia, che permetteva la riproduzione in serie degli atlanti e delle mappe. Non più monopolio dei gabinetti scientifici, potevano finalmente entrare anche nei salotti privati e nelle aule scolastiche.

Allora le mappe venivano elaborate col metodo della triangolazione, mutuato dal teorema di Pitagora. Prima ancora di una meticolosa collezione di dati, la triangolazione era un’estenuante prova fisica. I topografi erano costretti a camminare per giornate intere, spesso scalando montagne impervie con un cavalletto sotto il braccio e una bisaccia piena di viveri. Lo studio del territorio richiedeva una concentrazione estrema fino a notte inoltrata, quando a penna venivano ricopiate le cascate di misure scribacchiate a matita durante il giorno. Quella del topografo, insomma, era una figura professionale -per così dire- eccentrica. In possesso di una impeccabile preparazione scientifica, svolgeva il suo compito come una missione religiosa. Quando esplorava un territorio, la sua eccitazione era simile a quella di un reporter in un teatro di guerra.

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Émile Zola, che con il metodo naturalistico invocato da Flaubert aveva trattato il tema dell’adulterio in Thérèse Raquin (1867), conquista una fama internazionale grazie al caso di tradimento che scuote la Francia sul finire dell’Ottocento. Il suo “J’Accuse”, pubblicato su “L’Aurore” il 13 gennaio 1898, sposta i rapporti di forza tra i sostenitori dell’innocenza di Alfred Dreyfus, il capitano d’artiglieria ebreo accusato tre anni prima di intelligenza con la Germania, e quanti (la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica) sono certi della sua colpevolezza. Nei mesi in cui Dreyfus viene arrestato e processato, La France juive di Édouard Drumont (1886) aveva superato le cento ristampe.

In un’epoca in cui lo scientismo positivista si mescolava allo spiritismo e al satanismo, Drumont lo utilizza in chiave antigiudaica per spiegare come il tradimento sia connaturato all’ebreo. Per il fondatore della “Libre Parole”, l’ebreo non appartiene al nemico, non appartiene a nessuno: è “errante” e si dissimula nelle pieghe della società. Poiché il tradimento presuppone la rottura di una relazione di fiducia, per Drumont i traditori più veri non sono gli ebrei, i quali sono piuttosto spie che infettano con la loro presenza il corpo sociale, ma i loro amici e sostenitori, i “judaïsant”. Il consenso riscosso da queste tesi conferma la verità scomoda denunciata da Mathieu Dreyfus, ovvero che l’incriminazione di suo fratello era ascrivibile al virulento antisemitismo che allignava tra i suoi concittadini. Ma sarà solo nel 1898 che il mondo della cultura, anche su spinta di politici come Jean Jaurès, si decide a contrastare la marea patriottarda che stava sommergendo la Francia. Insieme a Zola, allo storico Gabriel Monod e al sociologo Émile Durkheim, i primi a scendere in campo saranno gli scienziati, a partire dal direttore dell’Istituto Pasteur Émile Duclaux.

 

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