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Ruggeri

La vita di Ruggeri raccontata da Ruggeri

"Una storia operaia" di Riccardo Ruggeri raccontato da Riccardo Ruggeri

Ho dedicato ai miei quattro nipoti questo libro di quasi 400 pagine, gioia e preoccupazione di un fine vita. Fino al “visto, si stampi!” ho temuto, stante l’età, di non fare in tempo a finirlo.

Scritto con sofferenza, e con tempi biblici, spero che almeno si legga in scioltezza. Un’autobiografia pubblicata in vita è atto di superbia, ogni pubblica confessione è arroganza, perché implicitamente pretende l’assoluzione. Mai sono stato in analisi, però uscirne l’ho sempre immaginata così: scrivere, scrivere con sofferenza, disvelarsi, ma insistere, insistere fino alla vittoria su noi stessi. Il capitolo sul carcinoma, inteso non come malattia ma come processo di vita, è analisi in purezza.

La Prima Parte (1934-2007) ha struttura e linguaggio novecentesco, pare un testo di arti marziali del management: secco, accurato, affilato. Si snoda attraverso un centinaio di personaggi, alcuni celebri. A volte, solo marginalmente fanno parte della narrazione. Così, Saddam Hussein, e la presunta amante con la quale parla nel Palazzo presidenziale, sono colti in un momento normale della loro vita, che casualmente si incrocia con la mia.

Ad esempio: le notazioni dei primi anni Novanta sulla Regina Elisabetta e la famiglia reale (Lady Diana era ancora viva) sono il frutto di osservazioni colte nel Royal Box del campo da polo di Windsor ove, a fine campionato, venni scelto per premiare la squadra vincitrice del torneo. Il capitano era il Principe Carlo. Sul campo, il fotografo di corte ci immortalò, sarò mica nell’album reale? Che valore potranno avere le mie notazioni, avendoli sempre osservati da dietro? Può una nuca essere specchio dell’anima, specie se reale?

In plein air invece Enzo “Drake” Ferrari, irremovibile nel non pagare una fornitura di vernice “Rosso Ferrari”, ma disponibile a un baratto a costo zero. O un Gianni Agnelli osservato solo sul lavoro, mai nella vita di società, il luogo ove invece si esaltava. O un Mu’ammar Gheddafi che ti invita nella sua tenda-bunker per prendere un tè alla menta e donarti il Libro Verde (una scopiazzatura del Libretto Rosso di Mao Zedong) e tu, quando dalla tenda esci, ti senti un sopravvissuto.

Mentre la Prima Parte del libro racconta la cosiddetta “Salita”, la Seconda (2008-2022) si riferisce al cosiddetto “Declino” (ovvio, il mio) e si spinge fino ai margini della baraggia della vita. Scompaiono di colpo le celebrità, i personaggi del mondo in cui sono vissuto per trent’anni. Rimango solo.

Solo con Lilli. Nel capitolo “Il pranzo della domenica (1943-2022)”, ci divertiamo a ricordare episodi marginali del passato (eppure sembrano così attuali), riflettiamo sul futuro della famiglia, e poi, perché no del mondo? Una parte della nostra vita l’abbiamo vissuta saltabellando da un continente all’altro, da un 747 o da un Concorde all’altro, da un grand hotel all’altro, schiavi di un’agenda dominata dal conto economico della multinazionale di turno. Un giorno tornammo umani: finalmente soli, sul grande terrazzo pieno di piante grasse, bonsai, erbe officinali, immersi nella luce silente di Bordighera.

Fuori ci sono la pandemia, la guerra, le minacce energetiche, la povertà incombente, un mondo che sa rispondere a ovvi problemi solo con stati di emergenza perenni, oppure con la guerra. E la parola chiave è sempre e solo l’oscena “realpolitik”. Da tutto questo puoi proteggerti solo con lo studio, con lo scrivere. Lenisci così la difficoltà del vivere nel mondo pieno di menzogne del politicamente corretto, negli squallidi lockdown intellettuali e fisici che ti impongono. Ultime cattiverie di leadership in via di decomposizione.

Nel 2008 mi detti l’obiettivo di cercare di capire in che mondo sarebbero vissuti i mie nipoti, tutti della Gen. Z. Buttai così nella mischia del libro un personaggio autentico reso finto, il Signor CEO, il tiranno mascherato da metaverso, nato ancor prima che Mark Zuckerberg lo concepisse. A sua insaputa, costui rappresenta l’attuale mondo delle élite in decomposizione.

Per fortuna, un giorno toccherà alla Gen. Z. gestire l’execution di questo periodo di mezzo fra un “vecchio mondo” e uno “nuovo”, tutto loro. Un mondo dove non ci sia più posto per la guerra, non più posto per la sconcezza culturale della realpolitik, perché la loro realpolitik sarà il rifiuto assoluto della vecchia realpolitik.

Il patrimonio di vita, vissuta fino all’ultima goccia, è per loro, così la missione consegnatami da papà: “Spingere la carriola, con energia, con determinazione, guardando sempre avanti, ma mai e poi mai tirarla”.

Zafferano.news

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