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Di Maio Salvini

La supercazzola della manovra del popolo

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Il termine supercazzola (“parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l’interlocutore”, secondo lo Zingarelli) è diventato celebre grazie a Ugo Tognazzi, alias conte Mascetti, che lo profferì per la prima volta nel film di Mario Monicelli “Amici miei” (1975). La sua invenzione è però antecedente: alcuni la attribuiscono all’attore e compositore Corrado Lojacono, altri allo scrittore e regista Marcello Casco.

Spigolature storiche a parte, veniamo al punto. Heidegger sosteneva che il linguaggio è la casa dell’Essere. Più sensatamente, si può affermare che oggi in Italia sta diventando la casa della Supercazzola, per riprendere un’osservazione sviluppata dal filosofo Maurizio Ferraris in un dotto e divertente volumetto (“Intorno agli unicorni”, il Mulino, 2018). I suoi attuali inquilini, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, l’hanno trasformata in una residenza confortevole per gli italiani sedotti dalla supercazzola denominata “manovra del popolo”, grazie alla quale non solo sarà abolita la povertà, ma – come recita la profetica canzone di Lucio Dalla – “sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno, e anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno”.

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Nella sua “Storia dell’Italia repubblicana” (Marsilio, 1997), Silvio Lanaro definisce il qualunquismo “[…] come supremazia dei ghiribizzi del gusto sui sudori dell’intelletto, come libertà di pensiero disancorata da categorie culturali troppo impegnative ed esigenti, come indisciplina sociale screanzata e popolaresca, come assimilazione delle fandonie del passato alle frottole del presente, come nostalgia di un senso comune spazzato via dall’invadenza delle visioni del mondo”.

In questo senso, si può ben sostenere che il movimento fondato dal commediografo Guglielmo Giannini è una variante e, insieme, un antenato del movimento fondato dal tecnologo Gianroberto Casaleggio. In un testo di oltre quarant’anni fa (“Dal populismo al compromesso storico”,1976), Nicola Matteucci osservava che il populismo si afferma sempre in un clima di idee semplici e passioni elementari, e manifesta una congenita volontà autoritaria, insofferente delle procedure della democrazia rappresentativa. Inoltre, quando arriva al potere, cerca di manipolare le masse con slogan demagogici, traboccanti di retorica nazionalistica e antiparlamentare. L’analisi del grande studioso del liberalismo sembra scritta oggi, perché proprio questa è la condizione odierna dell’Italia.

La coalizione gialloverde ha ancora il vento in poppa. Ma non può uscire dalla gabbia di una campagna elettorale permanente, a cui è costretta dalla concorrenza sfrenata tra due partiti espressione di due elettorati distinti, socialmente e geograficamente. Ma ora i nodi stanno venendo al pettine. Il mantenimento delle mirabolanti promesse del contratto -più o meno “rimodulate”- è infatti inconciliabile con le regole dell’Ue. Lega e Cinquestelle vogliono modificarle. Ma con quali alleati? Mai il nostro paese era stato così isolato in Europa, da Helsinki a La Valletta. Questo è lo scoglio su cui rischiano di infrangersi i sogni di gloria di Salvini e Di Maio.

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