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Maggioritario

La stagione del maggioritario: una generosa illusione

Il Bloc Notes di Michele Magno

All’inizio del Novecento l’avanguardia futurista italiana esaltava il varietà perché meraviglioso ed eccentrico, antintellettuale e popolare, capace di stupire, divertire, emozionare, abbindolare gli spettatori con la rapidità e il sensazionalismo del suo messaggio. Il teatro della sorpresa, come titolava il manifesto firmato da Filippo Tommaso Marinetti e Francesco Cangiullo nel 1921, doveva perciò gettare alle ortiche ogni scoria élitaria e diventare “alogico”. Artificio, comicità, imprevedibilità, testi scarni e insignificanti personaggi erano i canoni e i valori della drammaturgia futurista. Nel 1961 Martin Esslin pubblica The Theatre of the Absurd, dove campeggiano i nomi di Samuel Beckett, Eugène Ionesco, Jean Genet, capostipiti di un genere letterario celebre per il suo humor grottesco, le sue atmosfere surreali, il suo linguaggio ripetitivo, frammentato, privo di senso. Ebbene, nella diciottesima legislatura, una delle più scombiccherate della storia repubblicana, si sono alternate senza sosta ambedue le forme di spettacolo.

La diciannovesima rischia di ricalcarne le disavventure, complice una legge elettorale scriteriata, che ha incentivato la ricerca di alleanze spurie sostenute da programmi contradditori. Ciò conferma che il trentennio del “maggioritario all’italiana” ha rappresentato, nelle sue variegate versioni “bastarde”, un esempio da manuale di eterogenesi dei fini. Infatti, non ha stabilizzato il quadro politico, che ha subito molteplici e repentini rovesci. Ha ulteriormente parcellizzato la rappresentanza. Ha tribalizzato, non civilizzato, la competizione tra partiti e schieramenti. Ha favorito “comportamenti trasformistici e la formazione di maggioranze composite e trasversali, diverse da quelle dichiarate agli elettori” (Carmelo Palma, “Il proporzionale, una buona idea che rischia di rimanere un miraggio”, Public Policy, 6 maggio 2022).

La storia della Seconda Repubblica è stata, sotto molti punti di vista, la storia di una generosa illusione, ossia della speranza -rivelatasi vana- che con operazioni di ingegneria istituzionale fosse possibile curare mali endemici del sistema politico. Nell’arco di tre decenni il paese è stato così sottoposto a una torsione senza precedenti nel panorama delle democrazie occidentali: una serie di riforme elettorali, in due casi (Porcellum e  Rosatellum) concepite anzitutto per tagliare le unghie, rispettivamente, al centrosinistra e ai Cinquestelle; e, più in generale, tese a creare dall’alto un modello bipartitico, senza peraltro avere il coraggio di imporlo fino in fondo, ma costruendo un cervellotico meccanismo delle coalizioni pre-elettorali. Ne è uscito “un ibrido zoppicante, con partiti effimeri che si sono fusi e scissi ogni pochi mesi, alleanze forzate svanite dopo ogni elezione, tenute insieme dall’unico obiettivo di impedire la vittoria dell’avversario” (Francesco Cundari, “Fragili di Costituzione”, Linkiesta Magazine, 6 agosto 2021).

La transizione iniziata con il referendum sulla preferenza unica (1991), insomma, non si è mai conclusa. La battaglia contro le degenerazioni del parlamentarismo si è caricata di un significato palingenetico e persino morale, in virtù di una analisi che attribuiva al proporzionalismo la responsabilità della partitocrazia, fonte di ogni corruzione, clientelismo e arretratezza, nonché dell’insostenibile debito pubblico. Si è così affermato un movimento d’opinione giustizialista, che individuava nei referendum elettorali la leva decisiva con cui passare dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia decidente”, garantita appunto dal maggioritario e da un bipolarismo di coalizione. Un cambiamento equiparato a un cambiamento costituzionale, non per niente raccontato ancora adesso, secondo l’uso francese, come il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Il risultato è stato che ogni banale crisi di governo si è trasformata in una crisi di sistema. Motivo per cui le forze politiche, quando non erano impegnate a sfidarsi sulla legge elettorale, lo facevano sulla riforma della Costituzione, dove ogni tentativo di larga intesa, dalla “Bicamerale D’Alema” (1997) al “referendum Renzi” (2016), ha suscitato proteste clamorose, con toni da guerra civile, che ne hanno sempre decretato il fallimento.

Beninteso, la crisi dei partiti di massa e il tramonto delle ideologie novecentesche erano in corso ben prima del referendum del 1993, ma il cambio di sistema elettorale ha accelerato notevolmente entrambi i processi. Con il risultato “che, quando c’era una crisi di governo e si seguivano la lettera della Costituzione e la prassi parlamentare, costruendo nuove maggioranze guidate da nuovi presidenti del Consiglio, scattava immediata la reazione di vasti settori dell’opinione pubblica che gridavano al golpe e al tradimento del mandato popolare. Avevano torto in punto di diritto, ma coglievano un problema reale” (Cundari, ibidem).

Queste note critiche sono un autodafé. Perché chi scrive è stato in passato un partigiano del modello maggioritario. Come, tra gli altri, mi ha insegnato Franco Debenedetti, calato il sipario sulla “conventio ad excludendum”, travolta dalla caduta del Muro di Berlino, sembrava una strada obbligata. Epperò, come diceva (forse) Keynes, “quando cambiano i fatti, io cambio opinione”. E i fatti (non so se l’amico Franco sarà d’accordo), dicono che la stagione del maggioritario è stata avara di risultati non soltanto sul terreno dei mezzi (la governabilità), ma anche su quello dei fini (le riforme di struttura -come si chiamavano una volta- economiche, sociali e istituzionali). Infatti, qualunque sia stato il provvedimento immaginato per sradicare privilegi e corporativismi, è scattata veemente l’opposizione delle categorie colpite: monopoli, numeri chiusi, condoni, carriere assicurate, indennità speciali, proroghe e esenzioni, ope legis, gilde sindacali, ordini professionali e corporazioni di ogni tipo. Formano un esercito folto e agguerrito, e spesso sono riuscite ad averla vinta aizzando un particolarismo spietato e saccheggiando le casse pubbliche.

È contro questa muraglia che si è infranto qualsiasi vento riformatore. Lo schieramento antimeritocratico e anticoncorrenziale è riuscito così a neutralizzare la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza. Lo abbiamo visto nell’ultima campagna elettorale: slogan mirabolanti, moltiplicazione dei pani e dei pesci, tutela di qualunque rendita di posizione, meno tasse e più spesa per tutti grazie al magico scostamento di bilancio. Per altro verso, abbiamo assistito alla narrazione dolente di un paese sull’orlo dell’indigenza. Un paese che pure nel 2020 era al primo posto in Europa per possesso di abitazioni, autoveicoli, cellulari. Al secondo per animali da compagnia. Un paese in cui il giro di affari legato al gioco d’azzardo -legale e illegale- sfiorava la cifra incassata dall’imposta sul reddito. Un paese che, per conoscere il futuro da maghi e fattucchiere, spendeva più di quanto viene accantonato annualmente per i fondi pensione. Un paese in cui erano più di otto milioni i pensionati assistiti totalmente o parzialmente dalla fiscalità generale, tre milioni le persone che godevano del reddito di cittadinanza e altri tre milioni che beneficiavano degli ammortizzatori sociali: moltiplicati per il numero medio di persone a carico, erano circa venti milioni di cittadini che, in un modo o nell’altro, venivano assistiti dallo Stato.

Non basta. Più della metà dei contribuenti nel 2020 ha versato un’imposta sul reddito pari a quindici miliardi di euro. Ma il costo per assicurare a questa metà il diritto alla salute, alla scuola e all’assistenza è stato dodici volte superiore. Differenza colmata dai contribuenti con redditi superiori ai trentacinquemila euro, e che, da soli, versano quasi il sessanta per cento dell’Irpef. Infine, è vero che il numero delle persone in povertà assoluta negli ultimi tre lustri è raddoppiato. Senza però dimenticare che gran parte della povertà economica deriva dalla povertà educativa e sociale di cui soffrono quasi dieci milioni di italiani, molti dei quali affetti da dipendenza da alcol, droghe, ludopatie o da altri problemi alimentari come anoressia e bulimia. Una dura realtà in cui andrebbe incluso anche chi viene a trovarsi in situazioni di improvvisa difficoltà in seguito a precoci separazioni o divorzi. Benché, dunque, il numero dei poveri sia in salita, non siamo un paese povero. Siamo però un paese che ha un’evasione fiscale e un’economia sommersa stratosferiche, e che tra quelli dell’area Ocse vanta il triste primato (dopo la Turchia) del più alto indice di analfabetismo funzionale, mentre è in coda alla classifica per dinamica della produttività e per investimenti nella ricerca (Itinerari Previdenziali, Report 2021).

Verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, la questione del ceto medio diventò centrale nel dibattito pubblico dopo la pubblicazione del celebre Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini (1974). L’allievo di Joseph Schumpeter, mettendo in discussione un mantra della vulgata marxista, mostrava il peso crescente dei ceti medi (al plurale), soprattutto della piccola borghesia del settore agricolo, dell’artigianato e del commercio (i famigerati “topi nel formaggio”). E, pur riconoscendone l’importanza, lo attribuiva soprattutto alle politiche clientelari messe in campo dalla Dc. Oggi la questione si ripropone in termini diversi. Perché il presunto declino del ceto medio -del suo status come dei suoi livelli di reddito- non si presta a facili semplificazioni giornalistiche. L’attenzione, infatti, andrebbe rivolta più sull’allargamento della forbice tra il suo strato superiore e quello inferiore, ovvero sulle disuguaglianze create da questa divaricazione. Tendenza analizzata per primo da Charles Wright Mills nella sua monumentale ricerca sui “colletti bianchi” del 1951. In verità, una classe media non è mai esistita. Infatti, la classe media è un’insalata mista di occupazioni, una nebulosa che comprende lavoratori indipendenti (come artigiani, piccoli e medi imprenditori) e dipendenti (come gli impiegati pubblici e privati). Quando ci si vuol riferire a un insieme che supera e comprende tali diversità, entra allora in gioco il termine ceto, che indica una vicinanza di tratti culturali, stili di vita, modelli di consumo, effetto anche di scelte politiche.

La famigerata questione sociale, quindi, non riguarda solo il tasso di disuguaglianza, chi ha un basso salario, un impiego precario ed è escluso o staziona ai margini della “città del lavoro”. Essa chiama in causa l’assetto complessivo del nostro welfare. Agli inizi degli anni Cinquanta, Thomas Marshall poteva sostenere che nel welfare state in via di costruzione era implicita una tensione verso l’eguaglianza. Alla prova dei fatti, questo pronostico si è rivelato un abbaglio. Basti pensare all’incapacità, anche nelle versioni più interventiste dello Stato sociale, di estirpare le forme più dure e mortificanti di povertà come le stesse radici maschiliste dell’apparato dei diritti di cittadinanza. L’esperienza storica del welfare, in altri termini, porta ad affermare una tesi esattamente opposta a quella del sociologo inglese, che solo i moralisti accademici della sinistra possono ignorare, e cioè che libertà ed eguaglianza possono entrare in conflitto tra loro. Anche perché le protezioni sociali dipendono, in una misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato. Sfidati dai cambiamenti demografici, della famiglia e del lavoro, i sistemi di welfare sono sulla graticola dei governi da quando non è stato più possibile pagarli aumentando le tasse. Sono stati finanziati indebitandosi. E il debito, prima o poi, occorre restituirlo.

Purtroppo, la classe politica domestica è apparsa insensibile a questo monito. “Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere i piedi in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campare”, recita un aforisma di Piero Calamandrei. “È meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, rispondeva idealmente all’insigne giurista il totus politicus Giulio Andreotti. Tutti e due, seppure con intenti opposti, avevano colto acutamente uno dei tratti distintivi del nostro carattere nazionale. Per altro verso, era stato un conservatore disincantato come Giuseppe Prezzolini, fondatore della Congregazione degli Apoti (cioè di “coloro che non le bevono”), a sostenere che da noi non ci sono né antenati né posteri: ci sono solo contemporanei. Un “contemporaneismo” autoassolutorio, una sorta di liberatoria delle responsabilità avute nei confronti delle generazioni passate e delle responsabilità che si dovrebbero avere verso le generazioni future.

Lo ha sperimentato sulla propria pelle la nostra personalità più prestigiosa e autorevole, Mario Draghi, incaricata dal presidente Mattarella di affrontare drammatiche emergenze interne e internazionali, nonché la complicata attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, peraltro indispensabile per ricevere i denari europei. “Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente”: quando pronunciò la sua celebre massima, Mao Zedong si riferiva al caos della società cinese all’inizio degli anni Sessanta, che per il “grande timoniere” avrebbe favorito il movimento rivoluzionario. Da noi, invece, più prosaicamente ha risvegliato gli “spiriti animali” (alias elettorali) di quei leader politici che aspettavano solo un pretesto per rompere il patto di unità nazionale.

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*Prima parte del saggio pubblicato nel volume “Un ingegnere in Senato. Saggi in onore di Franco Debenedetti”, IBL, gennaio 2022.

 

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