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Giovanni Paolo II

La religione della libertà di Giovanni Paolo II

Il giorno dopo il centenario della nascita di Giovanni Paolo II, mi sia consentito aggiungerne una goccia "ex partibus infidelium". Il Bloc Notes di Michele Magno

Il Novecento è stato il “secolo degli estremi”, come lo ha definito Eric Hobsbawm. Un secolo segnato dallo scontro frontale fra opposti principi: democrazia e totalitarismo, capitalismo e comunismo, nazionalismo e internazionalismo. Un secolo solcato da antinomie radicali fra progresso e barbarie, promozione sociale e anomia spirituale, brutale oppressione e febbrile volontà di liberazione. Un secolo che nella sua seconda metà ha visto certamente tra i suoi protagonisti il primo polacco eletto sul Soglio di Pietro.

Sulla figura, pur controversa, di Giovanni Paolo II sono stati versati fiumi d’inchiostro. Il giorno dopo il centenario della sua nascita, mi sia consentito aggiungerne una goccia “ex partibus infidelium”. Dall’enciclica “Veritatis splendor” (1993) fino al discorso pronunciato davanti alle Camere riunite (2002), papa Wojtila ha costantemente denunciato il rischio dell’alleanza tra democrazia e relativismo etico. Questa denuncia, che sarà ripresa con forza dal suo successore Benedetto XVI, si presta ad essere interpretata come la prova di una irriducibile incomunicabilità tra pensiero democratico e fede religiosa.

È infatti difficile negare che democrazia e relativismo etico siano tutt’uno. La democrazia è relativismo. In democrazia i valori sono per definizione relativi. Possono sempre cambiare, poiché sono il frutto dell’esperienza storica e non di una rivelazione divina. Se così è, il dialogo sembrerebbe finito prima di cominciare. Ma siamo sicuri che le cose non siano più complicate?

Proprio nel suo intervento nell’aula di Montecitorio il pontefice polacco sostenne che “non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma che, al contrario, vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e i popoli”. Sulla necessità di fare riferimento a questo comune orizzonte di senso, pena lo svuotamento etico della democrazia, allora vi fu un largo accordo tra tutti gli schieramenti politici. Durò lo spazio di un mattino. La vecchia regola non dichiarata, secondo cui è giusto fare tutto ciò che si può fare, non fu minimamente messa in discussione.

Sotto tale profilo, oggi vale la pena di riflettere nuovamente sulle parole rivolte in Parlamento da Giovanni Paolo II ai rappresentanti del popolo italiano. Parole che incitavano a sollevare lo sguardo, a non dimenticare che ci sono dei valori non negoziabili, valori consustanziali alla dignità della persona e ai suoi diritti inalienabili come lavoratore e come cittadino. Che c’è sempre la facoltà, quindi, di appellarsi a un tribunale più alto, quali che siano le leggi vigenti.

A mio avviso, è questo il messaggio universale che ci ha lasciato un sommo interprete del cristianesimo come religione della libertà. Se poi qualcuno osservasse che sulla storia della Chiesa cattolica si allungano delle ombre che la oscurano anche gravemente, si può rispondere che è vero. Ma ciò nulla toglie al significato che quel messaggio riveste per quei non credenti, ai quali chi scrive appartiene, fortemente delusi da un dibattito pubblico in cui i mezzi diventano fini, o in cui — nella migliore delle ipotesi — i fini vengono asserviti ai mezzi. Una eterogenesi che sancisce il primato degli interessi corporativi sulla scena nazionale, dove il confronto delle idee per la soluzione dei problemi del Paese spesso cede il passo ai capricci dei professionisti dell’atavico trasformismo domestico.

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