Negli Stati Uniti è già iniziata la campagna elettorale per le elezioni di “midterm” del 2026. Sono in palio tutti i 435 seggi della Camera dei rappresentanti e 33 seggi del Senato (un terzo). È probabilmente a questo appuntamento che guarda Elon Musk, con la speranza di sottrarne qualcuno ai repubblicani. Non sarà facile per il suo American Party (peraltro per ora solo annunciato). I senatori vengono infatti eletti tramite un sistema maggioritario a turno unico, noto anche come “plurality”. Il candidato che ottiene il maggior numero di voti viene eletto, anche se non raggiunge la maggioranza assoluta dei voti. Fanno eccezione la Georgia e la Louisiana, dove si applica il ballottaggio tra i due candidati più votati. I deputati, invece, sono eletti in collegi uninominali con un sistema maggioritario semplice (vince il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti).
Se poi Musk volesse candidare un suo avatar alle elezioni presidenziali del 2028 (possibilità a lui negata perché non è nato negli Usa), dovrebbe prima scalare l’Everest. Le elezioni presidenziali non sono una contesa nazionale ma federale, combattuta stato per stato. Lo sono dal punto di vista sia politico che tecnico. Quindi il nome America Party, con i nomi dei candidati, devono essere scritti nelle schede elettorali di ciascuno dei cinquanta stati. E lo devono secondo i tempi e le procedure previste da cinquanta diverse leggi statali.
Inoltre, per sostenere la domanda dei candidati bisogna raccogliere entro l’inizio della primavera dell’anno elettorale un elevato numero di firme di “registered voters” dello stato, oppure trovare ospitalità in un partito che ha partecipato alle elezioni precedenti. Di piccoli partiti così ce ne sono, ma occorre trovare quello giusto e disponibile. In ogni caso, sono necessarie cinquanta macchine elettorali che sbrighino queste complicate procedure burocratiche. Ma fin qui Musk, che ha i soldi per pagare un esercito di funzionari e avvocati, può forse cavarsela.
Il guaio è che non basta raccogliere anche un buon numero di voti popolari. Il suo candidato per vincere deve arrivare primo nei singoli stati, conquistando così i suoi “grandi elettori”. Nel 1992 l’imprenditore texano Ross Perot ottenne il 19 per cento dei voti nazionali, ma essendosi piazzato sempre al secondo o al terzo posto nei singoli stati dopo Bill Clinton e George H. W. Bush, non conquistò nessun grande elettore.
Per altro verso, nel 1948 il suprematista bianco Strom Thurmond, candidato del State’s Rights Party, con poco più del tre per cento del voto popolare fece il pieno dei grandi elettori in Alabama, Louisiana e Mississippi. Mentre Henry A. Wallace -leader di una formazione filosovietica- con la stessa percentuale di voto popolare, ma mal distribuito a livello nazionale, non riuscì a guadagnare neanche un grande elettore. Nel 1968 l’American Independent Party del segregazionista George Wallace, per taluni aspetti antesignano del trumpiano “Maga” (“Make America Great Again”), con il 13,5 per cento dei suffragi su scala nazionale riuscì ad assicurarsi 46 grandi elettori degli stati del Sud.
Nella storia elettorale americana c’è stato anche un episodio “anomalo”. Nel 1912 l’ex presidente repubblicano Theodore Roosevelt, alla testa del Progressive Party, sfidò il suo successore William Howard Taft, che aveva sposato la causa dei conservatori. La corsa per la Casa Bianca fu vinta dal democratico Woodrow Wilson, ma Roosevelt -con i suoi quattro milioni di voti popolari e 88 voti elettorali- tarpò definitivamente le ali alle ambizioni di Taft.
Riassumendo, negli Stati Uniti due grandi partiti monopolizzano la vita politica da quasi due secoli, e pochissimi altri si spartiscono le briciole; ma non è stato sempre così. Ai suoi albori, c’erano il Partito federalista, fondato nel 1789 da Alexander Hamilton, e il Partito democratico-repubblicano, fondato nel 1792 da Thomas Jefferson e James Madison. Conservatore il primo, liberale il secondo. Il Partito federalista riuscì a far eleggere un solo presidente, John Adams, prima di scomparire dalla scena politica intorno al 1820.
Più complessa è stata la vicenda del Partito democratico-repubblicano, caratterizzata da continui e aspri scontri interni. Scontri culminati nella scissione del 1824, quando Andrew Jackson fondò il Partito democratico e i suoi oppositori il Partito Whig, che nel 1854 prese il nome di Partito repubblicano. Per un paio di secoli si contenderanno l’inquilino della Casa Bianca. E due simboli li resero immediatamente identificabili: un asinello e un elefante (il blu e il rosso si aggiunsero solo molto più tardi, quando il New York Times cominciò a pubblicare le mappe elettorali con questi colori).
Storicamente, il sogno del terzo partito è stato coltivato da personalità egomaniache e straricche (oggi da Musk, appunto). Oppure da movimenti popolari di vario tipo, alcuni appartenenti all’ala sinistra della sinistra come il vecchio Socialist Party di Eugene Debs. Oppure dai libertari, che nel 2016 conquistarono più di quattro milioni di voti a livello nazionale. O, ancora, dal Green Party di Jill Stein. Resta il fatto che alle elezioni presidenziali dello scorso novembre i “third parties” (terzi partiti) hanno racimolato meno di tre milioni di voti.
Per quanti difetti possa avere, l’assetto politico-istituzionale americano ha avuto il suo punto di forza nella stabilità. Questa stabilità è attualmente in discussione. Gli eventi traumatici del 6 gennaio 2021, che hanno segnato il primo passaggio di poteri non pacifico dai tempi della Guerra civile (1861-1865), hanno aperto una ferita nella democrazia americana che non solo non si è rimarginata, ma rischia di degenerare con la seconda amministrazione Trump. Non può certo curarla la rancorosa candidatura di disturbo di chi, fino a ieri, condivideva le ubbìe del tycoon newyorkese.