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Shackleton

La leadership nella tempesta: la via di Shackleton

Shackleton ha scolpito le regole di una leadership nella tempesta. L'articolo di Salvatore Santangelo

Se – come ci ha insegnato David Foster Wallace – «La turbolenza è la nuova normalità», è fondamentale attingere alla saggezza e all’esperienza di quanti hanno – con successo – avuto a che fare con le tempeste, domandole.

All’inizio del 1914 – in una Londra ancora non immersa nel clima bellico – fa scalpore l’uscita, sulle pagine del Times di questo manifesto d’arruolamento: «Cercasi uomini per viaggio rischioso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti»; è firmato dal capitano sir Ernest Shackleton.

L’obiettivo è quello di mettere insieme l’equipaggio necessario per una spedizione diretta verso quello che restava l’ultimo baluardo dell’esplorazione polare: la traversata del Continente antartico; l’unica conquista di prestigio rimasta in un mondo divenuto interamente percorribile.

Rispondono in migliaia e tra questi ne vengono reclutati 27.

Nell’agosto 1914, l’Endurance prende il largo per tagliare questo traguardo audace e appunto storico: la spedizione – partendo dalla costa del Mar di Weddell, attraversando il Polo Sud e giungendo quindi al Mar di Ross – sarebbe stata la prima ad attraversare l’Antartide.

Alla fine del 1914 – mentre in Europa infiamma ormai la Grande Guerra – la nave raggiunge un insediamento baleniero sull’isola della Georgia del Sud, ultimo scalo prima del Circolo Polare Antartico.

I locali consigliano a Shackleton di rinviare l’impresa a causa del ghiaccio insolitamente spesso che – qualora l’intensità del vento fosse aumentata e la temperatura improvvisamente precipitata – avrebbe potuto intrappolare la Endurance; ma, impaziente di proseguire e di sfruttare la finestra di opportunità a sua disposizione, il Capitano ordina al suo equipaggio di far vela ancora più a sud, navigando attraverso gli iceberg e le isole di ghiaccio.

Nel gennaio 1915, il veliero lambisce la terraferma antartica: dopo poco, come predetto dai balenieri, venti particolarmente rigidi e un repentino abbassamento delle temperature intrappolano la nave: «come una nocciola nel cioccolato».

L’Endurance è immobilizzata, ostaggio dei banchi di ghiaccio: Shackleton e i suoi uomini avrebbero dovuto aspettare il disgelo estivo, la fine dei lunghi mesi invernali negli angusti e claustrofobici spazi della loro nave.

Il capitano – da subito – comprende che, oltre alle condizioni meteorologiche estreme e alla scarsità di viveri, si affacciava all’orizzonte un nuovo, subdolo nemico (forse più pericoloso dei ghiaccio e del freddo polare): i potenziali effetti dell’inattività, della noia, in grado di compromettere la coesione del gruppo e quindi la loro incolumità.

La disciplina e la routine divennero la stella polare: ogni uomo doveva – nei limiti del possibile – continuare a sovrintendere alle proprie incombenze e ai propri doveri quotidiani.

I marinai pulivano i ponti, gli scienziati raccoglievano campioni e tutti, di volta in volta, formavano le squadre per pescare e per cacciare foche e i pinguini.

Le giornate erano rigorosamente scandite e nessuno poteva disertare la mensa o i momenti di socializzazione, e questo per evitare che la solitudine nutrisse i fantasmi interiori di ognuno.

Il morale prima di tutto.

Proprio attraverso la routine, l’ordine e l’interazione, Shackleton riuscì a gestire la paura individuale e collettiva che minacciava di scatenarsi quando il viaggio deragliò.

Sapeva che – senza più punti di riferimento, supporti tradizionali, con la meta finale compromessa e il rischio stesso di non riuscire a riconquistare la rotta verso casa – occorreva gestire livelli sempre maggiori di ansia, di pessimismo e di conseguente disimpegno.

Le ore di attesa diventarono giorni, settimane, infine mesi, e l’abbraccio di ghiaccio non dava segni di voler mollare la sua presa, fino a quando – nel giugno del 1915 – la pressione divenne talmente forte da compromettere l’integrità dello scafo dell’Endurance, al punto da renderle impossibile – qualora se ne fosse presentata l’opportunità – di riprendere la navigazione.

Dai fasciami schiantati l’acqua comincia a penetrare nelle cabine e nella stiva.

Shackleton si trova allora di fronte a uno dei momenti più difficili della sua carriera (l’altro sarebbe giunto di lì a poco): con la Endurance ridotta a un relitto non restava che svuotarla di tutto il necessario e accamparsi sul pack e dopo una notte passata in queste condizioni si rivolge ai suoi uomini esortandoli ad abbandonare quella che per quasi un anno era stata la loro casa, l’unico appiglio: «la Nave è andata, quindi ora torneremo a casa»; nell’intimità del suo diario, fu più sincero riguardo alla sfida che li attendeva: «prego Dio, che io possa riuscire a riportare la truppa alla civiltà».

Con 3 scialuppe, alcune tende e scarsi rifornimenti, appena possibile, avrebbero cercato di tornare sui propri passi: Shackleton era consapevole che avrebbe dovuto egli stesso incarnare la nuova missione, non solo essendo coerente con tutto quello che diceva ma essendo all’altezza di quello che chiedeva ai suoi uomini a cui non avrebbe mai dovuto far mancare il proprio supporto fisico ed emotivo: la sua sola presenza avrebbe avuto un enorme impatto sul morale.

Shackleton inoltre sapeva che ora, più che mai, in circostanze tanto deprimenti e disperanti, l’attenzione dei suoi uomini andava mantenuta sul futuro che andava illuminato con la fiaccola della speranza.

La nave era perduta; i precedenti piani avevano perso ogni significato.

Quello che conta – seppur sconfitti da una sicurezza eccessiva (il non aver prestato orecchio agli esperti balenieri) e da insormontabili ostacoli, senza recriminazioni – è quello di tornare a casa tutti, sani e salvi. Un testimone oculare ha raccontato quel momento: «L’ordine definitivo di abbandonare la nave fu impartito alle 5 pomeridiane. Non ci furono segni esteriori di paura. Avevano lottano per salvarla e avevano perduto. Accettarono il loro destino».

Di fronte a ogni accenno di disfattismo e scetticismo sui suoi piani, la sua azione è stata rapida e, per evitare che potessero nascere coalizioni o gruppuscoli in grado di disgregare l’unità della squadra, le sedizioni, le opposizione e la loro negatività venivano sedate rapidamente e con durezza, e proprio i più riottosi erano assegnati alla sua tenda.

Nell’aprile del 1916, il ghiaccio inizia a sciogliersi e Shackleton sprona gli uomini a prendere il mare con le scialuppe, nella speranza di raggiungere la terra ferma lungo la punta della Penisola Antartica. Dopo una settimana di mare in tempesta – esausti, disidratati ma allo stesso tempo rinfrancati dal toccare la nuda roccia dopo una così lunga permanenza in mare – giungono alla deserta Elephant Island.

Il capitano non perde tempo, iniziando a pianificare la prossima mossa: insieme ad altri cinque uomini, avrebbe raggiunto la Georgia Australe e da lì, un gruppo più piccolo l’insediamento dei balenieri.

Poi Shackleton tenta di trovare un vascello con cui trarre in salvo il resto del suo equipaggio rimasto indietro. Durante i mesi successivi, provò con tre diverse imbarcazioni, ma nessuna si rivelò il grado si frangere il ghiaccio attorno a Elephant Island.

Solo il 30 agosto del 1916, a bordo del piroscafo cileno Yelcho, riesce a raggiungere gli ultimi 22 uomini rimasti; uomini nei cui cuori aveva piantato così profondamente il seme della fiducia che erano intimamente convinti che il loro leader avrebbe fatto quanto umanamente possibile – e forse di più – per riportarli a casa: «L’ho fatto – telegrafò alla moglie Emily -, abbiamo superato l’inferno senza perdere nessuna vita umana», e questo in un tempo in cui fin dalla partenza, ogni spedizione metteva in conto un certo numero di perdite.

Attraverso ghiaccio, mare tempestoso e terre ostili, con mezzi e conoscenze limitate, Shackleton ha scolpito le regole di una leadership nella tempesta. La perfetta alchimia tra dedizione alla squadra e alla causa, l’impegno per uno scopo più ampio e metodi flessibili e creativi rappresentano un patrimonio imprescindibile per affrontare le turbolenze che sono la nostra nuova, inquietante normalità.

A questa storia il cantautore Franco Battiato ha dedicato versi davvero toccanti e a chi volesse approfondire, consiglio Endurance di Alfred Lansing (Tea), il recente Wild di Reinhold Messner (il Corbaccio) e il classico della cultura manageriale La via di Shackleton di Margot Morrell e Stephanie Capparell (Sonzogno).

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