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Società Industriale

La lagna sulla società industriale e sul totalitarismo tecnologico

Il Bloc Notes di Michele Magno

Di Martin Heidegger ho letto “Essere e tempo” (1927) negli anni dell’Università. Già allora mi apparve un pensatore geniale ma oscuro. Quando ero suo allievo alla Sapienza, fu il Lucio Colletti studioso di Rudolf Carnap che mi spiegò le astruserie linguistiche e le insensatezze logiche (celebre il “Niente nientifica”) delle sue opere. Secondo l’esponente più prestigioso del Circolo di Vienna la metafisica del “pastore dell’Essere”, del resto, era l’espressione di una moda nichilistica novecentesca. Con la conferenza, in particolare, tenuta a Monaco di Baviera nel 1953 (“La questione della tecnica”), Heidegger diventerà il capostipite della lagna sulla società industriale e su quel totalitarismo tecnologico che riduce gli uomini a “piccoli funzionari dell’apparato globale”: un genere di intrattenimento letterario che tira molto anche oggi.

I suoi estimatori replicano che la filosofia è una disciplina rigorosa, dotata di un proprio codice linguistico, che le conferisce, al pari di altre discipline quali la fisica, la chimica, la matematica, un proprio statuto epistemologico: spesso per i soli addetti ai lavori. Accusarlo di incomprensibilità, quindi, sarebbe come accusare Einstein di non farsi capire. La difficoltà di un filosofo non è perciò un argomento che possa invalidarne il pensiero. In qualche misura è vero,  se si  pensa solo ad alcune pagine della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, o alle “Meditazioni cartesiane” di Husserl, al “Tractatus Logico-Philosophicus” di Wittgenstein, ad alcune parti della “Metafisica” di Aristotele, e così via.

Ma non è questo, o solo questo, il punto. Beninteso, in un’epoca in cui la comunicazione, se non è violenta, semplicemente non esiste, prendersela con le tortuosità e le frasi prive di senso di Heidegger può rasentare il ridicolo. Ciò che realmente offende il nostro tempo non è tanto la mancanza di chiarezza ma l’intollerabile volgarità dilagante nei talk show, sui social network e, più in generale, nei media.

Dobbiamo allora ritenere che lo stile non conti nulla in filosofia? Non credo. Credo, invece, che l’ermetismo esasperato non giovi all’attrattività del suo discorso. In questo senso, è forse una vera e propria tragedia culturale che le opere pur difficili di Immanuel Kant, per quanto enorme sia il loro valore e l’influenza da esse esercitata, vengano studiate da così poche persone, a parte gli studenti di filosofia e i loro professori.

Secondo Arthur Schopenhauer, paradossalmente fu proprio l’autore delle tre “Critiche” a mostrare  la strada (a sua insaputa) per le successive generazioni di aspiranti accademici: un metodo per conquistare cattedra e approvazione divenne quello di scrivere con un grado di tecnicismo fumoso che convincesse il pubblico della profondità dell’argomento trattato, nascondendogli al contempo la sua vacuità.

L’inflessibile sostenitore dei diritti degli animali (solo questo me lo rende immenso) lo descrisse così: “Fichte fu il primo a cogliere e a utilizzare questo privilegio; Schelling perlomeno lo eguagliò, e una schiera di affamati imbrattacarte senza intelletto e onestà presto li superarono entrambi. Ma la più grande sfrontatezza nel preparare pure frasi prive di significato, nel mettere insieme, in qualche modo, trame di parole assurde ed esasperanti, quali se ne erano sentite solo nei manicomi, apparve alla fine in Hegel”.

Karl Popper una volta raccontò che, dovendo cominciare a scrivere in inglese, scelse Bertrand Russell come modello, “non soltanto per una questione di chiarezza, ma di etica professionale”. Lo stesso fece Schopenhauer con David Hume. Il britannico Matthew Arnold, uno dei più eminenti critici letterari dell’Ottocento, del cui magistero è debitore anche Harold Bloom, ha scritto: “La gente pensa che io possa insegnare a scrivere con stile. Che razza d’idea! Cerca di avere qualcosa da dire e dillo nel modo più chiaro possibile. Questo è l’unico segreto dello stile”.

 

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