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Lo stile conta non solo sui social network, ma anche in filosofia

Il Bloc Notes di Michele Magno

Di Martin Heiddeger, lo confesso, non ne so molto. Ho letto “Essere e tempo” (1927) negli anni dell’Università, la “Guida” al suo pensiero di Franco Volpi (appena ristampata da Laterza), il libro sui suoi “Quaderni neri” di Donatella di Cesare (Bollati Boringhieri, 2016), e poco altro. Quando ero suo allievo alla Sapienza, fu Lucio Colletti che, sulla scia della critica sviluppata da Rudolf Carnap all’inizio degli anni Trenta del secolo scorso, mi svelò le insensatezze logiche della metafisica del “pastore dell’Essere”, capostipite della lagna sulla società industriale e sul dominio della tecnica, un genere di intrattenimento che tira molto anche oggi.

Ma non è questo il punto. Ciò che più mi ha colpito, nella replica a più firme a un articolo di Alfonso Berardinelli che ne criticava le astruserie linguistiche (il Foglio, 24 ottobre), è l’affermazione secondo cui l’incomprensibilità di un filosofo non ne invalida la grandezza. Beninteso, in un’epoca in cui la comunicazione, se non è violenta, semplicemente non esiste, prendersela con le tortuosità di Heiddeger, Hegel o Kant può rasentare il ridicolo. Ciò che realmente offende il nostro tempo non è la mancanza di chiarezza ma l’intollerabile volgarità dei talk show e dei social network.

Dobbiamo allora ritenere che lo stile non conta nulla in filosofia? Non ne sono certo. Credo invece che l’ermetismo esasperato non giovi all’attrattività del suo discorso. E forse è una vera e propria tragedia culturale che le opere di un filosofo “difficile” come Kant, per quanto enorme sia il loro valore e l’influenza da esse esercitata, vengano studiate da così poche persone, a parte gli studenti di filosofia e i loro professori.

Paradossalmente, secondo Arthur Schopenhauer fu proprio l’autore delle tre “Critiche” a mostrare (a sua insaputa) la strada per le successive generazioni di aspiranti accademici: un metodo per conquistare cattedra e approvazione divenne quello di scrivere con un grado di tecnicismo fumoso che convincesse il pubblico della profondità dell’argomento trattato, nascondendogli al contempo la sua vacuità. L’acceso sostenitore dei diritti degli animali (solo questa cosa me lo rende immenso) lo descrisse così: “Fichte fu il primo a cogliere e a utilizzare questo privilegio; Schelling perlomeno lo eguagliò, e una schiera di affamati imbrattacarte senza intelletto e onestà presto li superarono entrambi. Ma la più grande sfrontatezza nel preparare pure frasi prive di significato, nel mettere insieme, in qualche modo, trame di parole assurde ed esasperanti, quali se ne erano sentite solo nei manicomi, apparve alla fine in Hegel”.

Karl Popper una volta raccontò che, dovendo cominciare a scrivere in inglese, scelse Bertrand Russell come modello, “non soltanto per una questione di chiarezza, ma di etica professionale”. Lo stesso fece Schopenhauer con David Hume. Il britannico Arnold Matthew, uno dei più eminenti critici letterari dell’Ottocento (del cui magistero è debitore anche Harold Bloom), ha scritto: “La gente pensa che io possa insegnare a scrivere con stile. Che razza d’idea! Cerca di avere qualcosa da dire e dillo nel modo più chiaro possibile. Questo è l’unico segreto dello stile”.

Condivido questa esortazione dal profondo del cuore.

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