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Errori Giudiziari

La justice est une espèce de marthyre (Jacques Bénigne Bossuet, teologo e predicatore francese del Seicento)

Il Bloc Notes di Michele Magno

“I magistrati fanno bene quando da pubblici ministeri fanno i pubblici ministeri e non i poliziotti o i giudici; quando da giudici fanno i giudici e non i pubblici ministeri o i poliziotti; quando rimangono indipendenti ed evitano anche di non apparirlo; quando rispettano gli altri poteri dello Stato e non cercano vie pseudogiudiziarie a discutibili riforme politiche; quando difendono la loro indipendenza, ma non camuffano da indipendenza i loro interessi corporativi; quando agiscono su fatti e non su teoremi” (Francesco Cossiga).

“Il pm non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me, richiede che (giudice e pm) siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo” (Giovanni Falcone).

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Quanti sono in Italia gli errori giudiziari? Se lo chiedono da oltre 25 anni Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, autori di Errorigiudiziari.com, il primo preziosissimo archivio sull’ingiusta detenzione. Il Rapporto, aggiornato al 31 dicembre 2020 e pubblicato pochi giorni fa, precisa che c’è una differenza fra le vittime di ingiusta detenzione (cioè coloro i quali subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi essere assolte), e chi subisce un errore giudiziario (ovvero chi, dopo essere state condannato con sentenza definitiva, viene assolto in seguito a un processo di revisione).

Tuttavia, “per avere una prima idea di quanti sono gli errori giudiziari in Italia vale la pena di mettere insieme sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari in senso stretto. Ebbene, dal 1991 al 31 dicembre 2020 i casi sono stati 29.659: in media, poco più di 988 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 869.754.850 euro e spiccioli, per una media appena superiore ai 28 milioni e 990 mila euro l’anno”.

La stragrande maggioranza è rappresentata da chi è finito in custodia cautelare da innocente: “Dal 1992 al 31 dicembre 2020, si sono registrati 29.452 casi: in media, 1.015 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera i 794 milioni e 771 mila euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27.405.915 euro l’anno”. Nel 2020 i casi di ingiusta detenzione sono stati 750, per una spesa complessiva in indennizzi pari a 36.958.648,64 euro.

“Rispetto all’anno precedente, si assiste a un netto calo sia nel numero di casi (-250) sia nella spesa”, scrive Errori Giudiziari. Come si spiega questa flessione così evidente? “È molto probabile che sia dipeso dal Covid, che ha rallentato pesantemente l’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque presumibilmente anche a quello delle Corti d’Appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione”. Per quanto riguarda invece gli errori giudiziari in senso stretto, il totale è di 207, a partire dal 1991. La spesa in risarcimenti è di 74.983.300,01 euro (pari a una media che sfiora i 2 milioni e 500 mila euro l’anno). Nel solo 2020, da gennaio a dicembre, gli errori giudiziari sono stati in tutto 16: 4 in meno rispetto all’anno precedente.

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Con il requisito anagrafico dei 67 anni (bloccato fino al 2024), l’Italia è ai primi posti della classifica europea per età legale richiesta per il pensionamento di vecchiaia. In effetti, come sottolinea un paper di Itinerari Previdenziali firmato da Michaela Camilleri, le riforme messe in campo negli ultimi trent’anni, alzando l’età di pensionamento, hanno cercato sia di sanare alcune vistose anomalie (baby pensioni, prepensionamenti) che consentivano di andare in pensione con requisiti eccessivamente favorevoli (si pensi, ad esempio, ai famosi 14 anni 6 mesi e un giorno dei dipendenti pubblici), sia di fronteggiare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione. Tanto che proprio l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, unitamente alla revisione periodica dei coefficienti di trasformazione, rappresenta uno degli stabilizzatori automatici a garanzia della sostenibilità del sistema pensionistico.

Posta l’asticella legale così in alto, a che età andiamo però effettivamente in pensione? Spulciando tra i dati Ocse, scopriamo che, contrariamente a quello che sostengono i sindacati e la compagnia di giro di Salvini,, il nostro paese non vanta alcun primato internazionale per età effettiva di pensionamento: tra il 2013 e il 2018 le lavoratrici italiane sono andate in pensione a un’età media effettiva di 61 anni e 5 mesi, contro una media Ocse di 63 anni e 7 mesi, posizionandosi alle spalle di Germania e  Regno Unito (63,6); nello stesso periodo, gli uomini hanno registrato un’età media effettiva di 63 anni e 3 mesi, a fronte di una media Ocse pari a 65 anni e 4 mesi, spostando l’Italia ancora più in coda alla classifica.

Questo perché, oltre alla vecchiaia, il nostro sistema prevede un secondo canale di accesso al pensionamento, ossia la pensione anticipata, i cui requisiti contributivi sono bloccati a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne fino al 2026. Senza considerare, inoltre, l’introduzione di una serie di misure ulteriori che consentono di anticipare la pensione rispetto all’età pensionabile: opzione donna, Ape sociale, isopensione o assegno di esodo, grazie al quale il lavoratore può andare in pensione con sette anni di anticipo con il concorso alle spese dell’azienda di cui è dipendente. Insomma, tanto baccano per nulla (o quasi).

 

 

 

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