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Dostoevskij

Il 25 aprile e la concezione della libertà di Fëdor Dostoevskij

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Per il secondo anno consecutivo domani si celebrerà in tono minore, senza cortei e comizi nelle piazze; e però il 25 aprile non è mai stato la festa di tutti gli italiani. Al contrario, perlopiù è stato vissuto come un derby tra opposte tifoserie: fascisti contro antifascisti, destra contro sinistra, cattivi contro buoni. La verità è che, dopo tre quarti di secolo dall’insurrezione che liberò il Nord del paese, non ne abbiamo ancora una memoria condivisa, anche perché non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo col nostro passato.

Nel 2019 l’allora ministro degli Interni Matteo Salvini preferì trascorrerlo a Corleone per inaugurare un commissariato di polizia, sostenendo che la vera liberazione dell’Italia era quella dalla mafia. Nel 2020, invece, un noto parlamentare di FdI propose di trasformarlo in una festa della concordia nazionale, in cui onorare le vittime di tutte le guerre. Un’idea singolare, tanto più se si considera che da noi la concordia nazionale non sembra nelle corde di quel partito nemmeno ai tempi del coronavirus.

Di ben altro significato politico-culturale, invece, era quella di convertire la Festa della Liberazione in una Festa della Libertà, avanzata nel 2009 da Silvio Berlusconi in un discorso tenuto a Onna, cittadina simbolo del terremoto in Abruzzo. Un discorso serio e intellettualmente onesto, in cui l’appello a superare una storica divisione non sminuiva le ragioni dei vincitori e i torti dei vinti. Per la prima volta, anzi, il Cavaliere riconosceva senza ambiguità il contributo decisivo della Resistenza alla nascita della democrazia repubblicana. Pure, fu sommerso da un mare di polemiche, e qualcuno (l’allora governatore della Puglia Nichi Vendola, per non fare nomi) lo liquidò seccamente come la professione di un “brutto revisionismo, puzzolente e melmoso”.

A mio avviso, quel discorso avrebbe meritato una più pacata accoglienza, e poteva essere sfruttato per meglio riflettere su una questione cruciale, ovvero se la Libertà (con la maiuscola) possa essere considerata un valore, sia pure il più alto e irrinunciabile. Nessuno ne meni scandalo. Intendo dire che essa, in realtà, è la condizione perché questa o quella libertà (con la minuscola) si dia. In tal senso, può decidersi per il bene come per il male, con sovrana indifferenza. Addirittura può rovesciarsi nell’atto che la nega o l’annulla. Insomma, la libertà — come ben sapeva il Dostoevskij lettore di Pascal — viene prima del bene e del male.

Attenzione, però. Perché, come ha scritto il filosofo russo Nikolaj Berdjaev, lo stesso Dostoevskij “più profondamente di ogni altro ha compreso che il male è figlio della libertà. Ma ha compreso pure che senza libertà non c’è il bene. Anche il bene è figlio della libertà. A ciò si ricollega il mistero della vita, il mistero del destino umano. La libertà è irrazionale e perciò può creare sia il bene sia il male. Ma ricusare la libertà per il fatto che può produrre il male, significa produrre un male ancora più grande” (La concezione di Dostoevskij, Einaudi, 2002). Da ciò si deduce che, per l’autore di Delitto e castigo, la libertà rappresenta le fondamenta dell’edificio umano, e che i suoi inquilini sono disposti a patire tutte le sofferenze che il mondo può infliggere pur di sentirsi liberi. Ciò vale non per tutti e non sempre, ovviamente.

Tuttavia, col 25 aprile 1945 non fu forse proprio la ribellione di pochi a determinare la libertà di tutti?

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