skip to Main Content

X

“La città di X” di Tibor Déry, in cui l’unica istituzione è il carcere

Il Bloc Notes di Michele Magno

La svastica sul sole di Philip K. Dick (1962), Fatherland di Robert Harris (1992), Il complotto contro l’America di Philip Roth (2004): sono solo alcuni titoli dei numerosi romanzi ucronici, che raccontano avvenimenti storici immaginari, alternativi a quelli realmente accaduti, pubblicati tra la seconda metà del secolo scorso e l’inizio del Duemila. Più o meno tutti affrontano il problema della crisi della democrazia nell’età della “ribellione delle masse”, per usare la formula coniata nel 1930 da Ortega y Gasset.

Per altro verso, le aberrazioni del totalitarismo novecentesco erano state già narrate da una vasta letteratura distopica, in cui spiccano le opere di Aldous Huxley (Mondo Nuovo, 1932) e di George Orwell (La fattoria degli animali e 1984, rispettivamente del 1945 e del 1949). Due decenni prima, Evgenij Zamjatin in Noi (1924) aveva descritto la “Città di vetro”, oppressiva e dominata da una “felicità matematicamente esatta”, dove gli abitanti senza nome erano segnati con numeri e i dissidenti liquefatti. La città immaginata dall’ingegnere russo era governata da un “Benefattore” che anticipava l’onnipresente “N. 1”, il capo del Partito che in Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler (1941) è il protagonista delle purghe staliniane.

C’è anche un altro scrittore ungherese a cui si deve una geniale quanto amara denuncia del regime sovietico. È Tibor Déry, l’autore di Il signor A.G nella città di X (1963). Lo storico Gian Mario Bravo, scomparso recentemente, gli ha dedicato un saggio magistrale da cui sono tratte queste note (Utopia, Stato e distopia. Il totalitarismo libertario in Tibor Déry, 2006, disponibile in pdf). È il mio modo di ricordare l’allievo di Luigi Firpo e Norberto Bobbio, insigne studioso del pensiero marxista.

Nato nel 1894, appartenente alla borghesia ebraica di Budapest, Déry nel 1919 aderisce al Partito comunista. Dopo la sconfitta della Repubblica dei consigli, si rifugia in Austria. Nel 1934 ritorna nella capitale magiara, dove viene arrestato per aver tradotto il diario di André Gide sull’Urss. Nel dopoguerra comincia a pubblicare romanzi di successo, influenzato dal surrealismo. Nel corso della rivoluzione del 1956, diventa portavoce del governo Nagy insieme György Lukács e Gyula Hay. Imprigionato nuovamente nel 1957, viene condannato a nove anni di carcere e poi graziato nel 1961. Durante la reclusione, concepisce il suo singolare romanzo distopico, in cui l‘autore finge che non sia stato composto da lui, ma dal suo amico A. G.. Questi gli aveva donato il manoscritto, steso nel 1929, in cui raccontava il suo viaggio e il suo soggiorno nella città di X, con la raccomandazione di distruggerlo dopo averlo letto. Déry avverte che mancano le prime quattro pagine, strappate probabilmente allo scopo di nascondere l‘ubicazione della città, il cui nome, appunto, è sostituito dalla lettera X.

L’avventura di A. G. comincia col suo viaggio in direzione di X per lasciarsi alle spalle il mondo borghese. Prima attraversa una landa desolata, poi una distesa di ferraglia d‘ogni genere, teatro di battaglie passate, oltre la quale avvista la periferia della città composta da edifici diroccate e palazzi in rovina. Giunto al centro di X, il paesaggio non cambia: mucchi di detriti, vie interrotte, case vuote e squassate. Tuttavia, A.G. percepisce la presenza di uomini. Si inoltra quindi lungo una strada diritta e lunghissima. Il panorama è sempre lo stesso: qualche edificio è in piedi, molti sono crollati, alcuni sono in costruzione ma non ancora finiti. Un ambiente anonimo e senz’anima, dove domina l’incuria e si vive nella penombra.

Nell’Hotel Astoria, in un salone magnifico e enorme, con affreschi dorati e splendidi lampadari, un’orchestra su un podio suona senza sosta un valzer viennese, ma non c’è nessuno, se non il portiere. Le stanze invece sono squallide, senza finestre, prive di servizi. Nei bagni marmorei, pieni di stucchi di ogni tipo, non arriva l’acqua. Tutti sostengono che esistono mezzi di trasporto moderni, dai taxi ai tram, ma A.G. non ne vede nemmeno uno. C’è un treno, che egli scorge da lontano, ma non ha fermate e non sembra trasportare passeggeri: i suoi binari corrono anche sui marciapiedi e spesso travolge i passanti, che di proposito non lo evitano.

A X ci sono solo due stagioni: l’inverno e l’estate, ma il sole splende per non più di un paio di giorni, oscurato dalla polvere delle macerie sollevata da un vento incessante. Né esiste la natura: non ci sono animali, alberi, piante, fiori. Gli abitanti ignorano il concetto di progresso, non hanno le nozioni di spazio e di tempo, non ci sono anziani (salvo uno). Camminano e discutono tutto il tempo sulla felicità, sulla libertà e sulla logica. Le loro vesti sono modeste e l’alimentazione ridotta al minimo. Non lavorano, salvo i “costruttori di case”, i camerieri, gli uscieri e gli addetti a vaghi servizi. A X regnano le libertà illimitate dell’individuo, l’assoluto si identifica con la morte, simbolo della razionalità suprema. È una civiltà in cui cittadini sono infelici ma appagati. È una società demente, dispotica, allucinata, immatura, retta dalla speranza della fine fisica come liberazione estrema.

A X non c’è una forma di governo. La città si autogestisce. Tutto, benché malamente, funziona, anche se non si sa da dove e da chi vengano prodotte le merci consumate. L’unica istituzione è il carcere, che è insieme tribunale e prigione. È un palazzo immenso. I tavoli dei giudici, degli avvocati, degli imputati sono lussuosi. Su un palco l’orchestra suona l’abituale valzer. Il resto della sala è gremito di tavolini con luci brillanti, insoliti per magnificenza. Le udienze sono pubbliche e affollatissime. I giudici, costituiti da detenuti, mostrano cicatrici visibili e ulcere. Il rinvio del giudizio è abituale e non c’è mai una vera chiusura dei processi. A. G. racconta l’esistenza quotidiana di un ergastolano, condannato per aver cercato di impedire che sua moglie si togliesse la vita. È recluso in una cella sfarzosa, gode di abiti e cibi sofisticati, ha un segretario particolare che soddisfa i suoi desideri, ma è disperato.

Evidenti — sottolinea Bravo — sono le analogie con il processo kafkiano. La scena si svolge in un tempo fuori dal tempo, segnato dal paradosso e dalla follia. Per Kafka è quello borghese della Mitteleuropa dell’inizio del Novecento, per Déry è quello dell’egualitarismo deprimente dell’era sovietica. Ma c’è una soluzione per il disagio esistenziale degli abitanti di X: la “marcia trionfale” verso il suicidio collettivo, cui tutti aspirano ma di cui nessuno parla. È la chiave dell’enigma. La marcia si svolge periodicamente, e il suo annuncio determina un’eccitazione irrefrenabile. Comincia con un corteo festoso che s’ingrossa sempre più mentre balla e canta, avanzando verso l’abisso.

Quella di Déry — sostiene Bravo — è una storia controfattuale, è la rappresentazione di una realtà in cui le istituzioni funzionano in “senso inverso”. La politica non esiste più perché tutto diventa politica, e il primo attore, l’uomo, ha esaltato talmente la sua individualità che, per affermarla, deve annullarsi, raggiungendo così la beatitudine. Il testo termina con il ritorno di A.G. in Occidente (da dove fuggirà di nuovo). Al disincanto dell’impatto con la modernità, l’autore aggiunge una nota politica, risolutiva nel suo pensiero, che sfata la sua presunta compromissione con il regime di János Kádár. È un’apertura di credito verso il socialismo, nonostante la tragedia di quello “realizzato”. È una pagina soltanto, ma decisiva per la lettura e la comprensione del libro.

Nell’incipit, Déry riprende un verso dell’amato poeta ungherese Attila József (1905-1937),  “Vieni, o libertà, generami l’ordine”. Lo commenta così: “È dunque vero che la libertà genera l’ordine? E non invece l’ordine la libertà? No, non dobbiamo contrapporre questi due concetti, che vivono l’uno dell’altro. Entrambi sono stati plasmati dalla società degli uomini a difenderla dalla natura, nella quale non c’è ordine né libertà, bensì soltanto rigoglio e disfacimento, in equilibrio. Ma l’uomo vuole poggiare saldamente il suo piede in questo infinito della vegetazione, e difendere la sua umana dignità, singolare e incomparabile. Un ordine senza libertà? Prima o poi deflagrerebbe. Libertà senza ordine? Il mio romanzo, come un grido di dolore, vuol richiamare l’attenzione su questa bolgia dell’inferno”.

“Come ogni utopia, anche questa — conclude — è di carattere polemico, quindi unilaterale, giacché per amore di esperimento e di un più libero gioco della fantasia ho omesso ciò che della storia autenticamente resiste: il socialismo, in modo da rendere più convincente la rappresentazione del mio orrore. Perciò non ho descritto ciò che sarà — non sono profeta, né per il mio intelletto né per la mia ragione — bensì ciò che potrebbe essere se l’umanità, in un istante di demenza, alzasse la mano su di sé. Che sarà dunque del nostro futuro? Questo è per l’uomo il problema decisivo: io ho descritto soltanto ciò che non deve essere fatto. Il fatto che l’ho descritto testimonia della mia fiducia nell’uomo e nel socialismo”.

 

Back To Top