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Karl Kraus

Karl Kraus e i nemici delle vaccinazioni

Il Bloc Notes di Michele Magno

“I nemici delle vaccinazioni hanno detto che a Vienna non è scoppiato il vaiolo, ma un’epidemia da vaccino. Ora anche loro sanno valutare il valore della profilassi, ma la loro prudenza è un po’ esagerata: si prendono il vaiolo per proteggersi dal vaccino” (Karl Kraus, “Aforismi in forma di diario”, 1907).

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Guai a sottovalutare la forza del nulla. “Il Nulla nullifica”, sostiene Martin Heidegger in una celebre lezione (“Che cos’è la metafisica”, 1929). Il nulla può cioè agire come una potenza distruttiva, capace di travolgere perfino la sovranità della ragione. Purtroppo, il nulla in politica continua ad ottenere il plauso di molti nostri concittadini, forse immemori dei tempi bui in cui il popolo italiano era -come recita il coro manzoniano dell’Adelchi- “un volgo disperso che nome non ha”. I primi anni della Repubblica furono chiamati gli anni delle grandi speranze. Gli anni del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica sono stati gli anni delle grandi delusioni. Gli anni della pandemia saranno ricordati come gli anni della Lega di lotta e di governo.

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Per Machiavelli il popolo è, insieme ai “grandi”, uno dei “dua umori diversi” che si trovano in ogni città; per Spinoza una massa informe quando è guidato più dalla paura che dalla ragione; per Hobbes una moltitudine dispersa e conflittuale prima che sorga lo Stato; per Rousseau una comunità alla quale ogni individuo cede tutti i propri diritti. A queste e altre illustri definizioni si aggiunse tre anni fa quella data dall’allora premier Giuseppe Conte in un talk show televisivo: “Il popolo è la somma degli azionisti che sostengono questo governo”. Parole le quali dimostrano che non solo lo stomaco, ma anche il pensiero può avere i crampi.

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In visita a Napoli nel 1776, il marchese De Sade partecipa alle baldorie notturne della nobiltà partenopea e gusta i bei gelati offerti dal Borbone. Finché, una sera, si accorge che le coppe contenenti gli squisiti sorbetti sono legate al tavolo con lunghi spaghi, e chiede a un duca la ragione di una tale novità. “Perché Sua Maestà -gli spiega il duca- si è accorta che ai suoi cortigiani fanno gola più le coppe che i gelati, e pertanto ha preso questa precauzione”. Poi, abbassando la voce, implora: “Non lo dica in Francia, per carità”. Questo aneddoto, raccontato da Luigi Compagnone in un divertente saggio sull’indole festaiola degli italiani, ci parla dell’arguzia di un sovrano (Ferdinando I) e dell’avidità di una aristocrazia parassitaria. Due secoli e mezzo dopo, cambia la scena sociale ma gli attori sono gli stessi. Sono appunto gli italiani, che non hanno mai smesso di pensare al loro paese come a un paese un po’ ribaldo e un po’ innocente, in cui il ricorso diffuso a metodi illegali non è mai stato visto come un morbo, una patologia, ma come l’espressione di un congenito spirito d’iniziativa, di creativa vitalità.

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È un classico la storiella di quel parvenu che, approdato in un salotto dell’alta società, alla vista di una bellissima donna non riesce a trattenere il proprio entusiasmo ed esclama: “Ah, signora, quanto mi piacerebbe andare a letto insieme a lei!”La sortita è cruda, imprevedibile. Brusio, sconcerto, scandalo e, peggio di tutto, l’occhiata sprezzante con cui la dama ricambia la dichiarazione del goffo ammiratore. Il quale, comprendendo di aver sbagliato, si affretta a rettificare e, con una mano sul cuore, soggiunge:“Pagando, s’intende”. Con tutta evidenza, è solo l’ameno racconto della gaffe di un fesso. Ieri strappava con facilità un sorriso. Oggi susciterebbe lo sdegno di quelli che “ ecco come l’élite si fa beffe degli umili”. È l’essenza letteraria del populismo: ama la parodia, la caricatura grottesca dei “nemici del popolo”, ma è incapace di autoironia.

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Selezionare un personale elettivo che curi esclusivamente l’interesse generale è in democrazia “mission impossible” (o quasi). Lo aveva capito Gaetano Mosca, un conservatore a tutto tondo. Per il padre della scienza politica moderna, gli elettori non premiano i più dabbene e i più capaci, ma i più pronti ad assecondarli. Beninteso, una politica rispettosa della legalità è cosa necessaria e buona. Ma le radici della cattiva politica non affondano soltanto nella politica medesima, come se la società italiana fosse un’oasi incontaminata di virtù civiche. Lo sappiamo da molto tempo: la violazione delle regole non solo vi è ammessa largamente, ma è un lubrificante del suo funzionamento. D’altronde, chi non ha mai parcheggiato in doppia fila o ha dimenticato di chiedere la fattura all’idraulico? Un pezzo di economia prospera solo così. Si può alzare “il costo morale dell’immoralità” (codici etici di partiti, imprese, pubbliche amministrazioni) quanto si vuole, ma niente potrà sostituire la forza cogente del diritto: leggi ben fatte, processi celeri, certezza della pena, magistratura inquirente efficiente, forze dell’ordine dotate di mezzi adeguati. Non servono insomma poteri straordinari contro la corruzione. Serve che i poteri ordinari vengano esercitati con straordinario rigore. Tutto il resto è noia, come recita la canzone di Franco Califano.

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