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G7 Pelanda

Vi spiego cosa cambierà su Cina, Libia e Big Tech dopo il G7 di Biden. Parla Pelanda

Le conclusioni del G7 commentate e analizzate da Carlo Pelanda, docente di geopolitica ed economica

 

Concluso il vertice del G7 di Carbis Bay, si sta parlando molto di quel “ritorno dell’America” promesso dal presidente Joe Biden e anche dei rapporti tra Cina ed Europa, con il presidente del Consiglio Mario Draghi che ha aperto a un riesame del memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative (o Nuova via della seta) firmato dall’Italia nel 2019.

Per Carlo Pelanda, analista geopolitico e professore di geopolitica economica all’Università Guglielmo Marconi di Roma, “lo scenario è cambiato”, e Biden è riuscito a “portare a bordo gli europei” nel suo piano di contenimento cinese. Non quanto avrebbe voluto, però.

Professor Pelanda, com’è andato il G7 per Biden? Quanto è stato netto il cambio di approccio rispetto a Donald Trump?

Nel 2017 sia i Repubblicani che i Democratici concordarono sul fatto che bisognava reagire alla Cina: questo collante, dettato dalla volontà dell’America di continuare a essere la prima potenza mondiale, è un fatto. Poi però Donald Trump ha interpretato il mandato in una maniera un po’ provinciale, cercando di ridurre il deficit commerciale con Pechino e di ottenere vantaggi per gli agricoltori statunitensi. Spostò la grande strategia sul piano del dettaglio commerciale: non ci riuscì. Pensò di poterlo in un modo ‘americanista’, senza coinvolgere gli alleati: non capì che per condizionare la Cina bisognava creare qualcosa di più grande di lei, ovvero un’alleanza tra le democrazie a livello globale.

Joe Biden invece lo ha capito. Al G7 di Cornovaglia ha ottenuto il 70 per cento di quanto si era prefissato: non è poco. Ha portato a bordo gli europei, anche se non come voleva, perché gli europei hanno una dipendenza dalla Cina più marcata rispetto agli americani e hanno meno risorse per confrontare l’eventuale perdita del mercato cinese. Biden lo ha capito e si è accontentato.

Anche se gli europei hanno voluto attutire la contrapposizione con la Cina, Biden è comunque riuscito a far dire loro cose importanti sul distanziamento dai regimi autocratici. Si è dunque creato un primo confine basato sui valori della democrazia contrapposti a quelli delle autocrazie. Da qui poi si svilupperanno tutta una serie di iniziative.

A proposito di iniziative: Biden ha lanciato una risposta alla Nuova via della seta, il Build Back Better World (B3W). Verso quali aree del mondo pensa che si rivolgerà?

Sì, da parecchio tempo circolavano bozze riservate su questo progetto. Diciamo che l’obiettivo generale è quello di contrastare la Cina in Africa e in Sudamerica, zone grigie dove bisogna offrire delle alternative più vantaggiose a quelle provenienti da Pechino. Non è facile. Bisognerà spendere delle risorse e in qualche modo si formeranno due blocchi: l’area delle democrazie e l’area di influenza cinese.

Lo scopo ultimo è ridurre l’influenza della Cina dentro i suoi confini nazionali. Gli americani e gli europei hanno già tagliato parecchio i collegamenti della Cina con il resto del mondo. La grande strategia degli Stati Uniti dice infatti che la Cina può essere una grande economia, ma deve restare lì dov’è e non espandersi oltre il suo territorio. Non si punta al regime change: nessuno avrebbe i soldi per rifinanziare e contenere il disordine della Cina.

Non tutti i membri del G7 vedono la Cina allo stesso modo. Mi sembra che l’Europa abbia qualche riserva a schierarsi. Qual è la posizione dell’Italia? E che ne sarà del memorandum sulla Nuova via della seta?

Il memorandum con l’Italia era un documento d’intenzione, di fatto è già annullato. La Nuova via della seta è in difficoltà: la Cina è sì minacciosa ma non è tanto forte; non ha i soldi che le servono per tamponare la crisi interna bancaria e di sovraccapacità. Ha un buco debitorio che equivale al 150 per cento del PIL che riesce sì a nascondere, ma ha bisogno di soldi per coprirlo. Buona parte dei programmi cinesi sulla Nuova via della seta sono infatti stati tagliati o riconvertiti per dare priorità a quelle aree dove Pechino è più sicura di esportare manifattura.

Alla democrazia americana serve sventolare la bandiera della minaccia cinese per giustificare l’espansione commerciale in Africa e Sudamerica.

C’è qualcosa che gli Stati Uniti possono fare per ridurre quella dipendenza europea dalla Cina di cui parlava?

L’America dovrebbe creare un mercato integrato e globale delle democrazie, che abbia un centro euro-americano e che punti a sostituire il mercato cinese con quello indiano.

Comunque, lo scenario è cambiato. L’America si è re-ingaggiata, e questo sposta gli equilibri a favore del mondo delle democrazie. La diplomazia americana si è dimostrata intelligente, furba, e ha rinunciato a mostrare arroganza. Faccio un esempio. La Germania non può avere problemi di contrasto con la Cina e la Russia perché la sua economia ne risentirebbe pesantemente. Trump aveva minacciato sanzioni, mentre Biden ha invitato a Washington Angela Merkel, come primo leader europeo, per discutere insieme della questione.

Resta comunque, negli europei, una certa perplessità circa l’affidabilità dell’America: già si guarda alle elezioni di metà mandato e alle possibili conseguenze se Biden dovesse perdere la maggioranza.

Tornando al G7, lei cosa ne pensa della cosiddetta “minimum tax” per le grandi aziende tecnologiche? Si farà? Cosa comporterebbe per le Big Tech?

L’amministrazione Biden, democratica, cercherà di non scontentare le grandi aziende tecnologiche americane, che sono un alleato importante in vista delle elezioni di metà mandato.

Queste aziende possono tranquillamente permettersi di pagare un po’ più di tasse, il loro business non viene messo in difficoltà. A preoccuparle è piuttosto la tassazione diretta, cioè l’approccio europeo. E allora si userà il trucco della minimum tax, che sarà – dopo un lungo percorso – un compromesso tra i governi e le multinazionali. I governi potranno dire di aver tassato le multinazionali, e queste otterranno in cambio la fine della pressione demonizzante contro di loro. La sostanza però non cambia.

Riferendosi alla Libia, Mario Draghi ha detto che “la prima esigenza è quella di attuare il cessate-il-fuoco”, e che dunque i mercenari stranieri lascino il paese. Com’è lo scenario libico?

Draghi ha portato a casa un primo impegno americano per convincere la Turchia a togliere i propri mercenari. Quelli russi, della Wagner, non stanno più combattendo da parecchio tempo. Lo scenario è abbastanza buono. L’America sulla Libia sostiene l’Italia, e questo già da qualche tempo: nel periodo di transizione fra Trump e Biden, la burocrazia imperiale americana aveva fatto il punto della situazione e deciso che non si poteva lasciare l’Italia sola con i russi.

L’Italia, da parte sua, si è comportata piuttosto bene. Lo scenario è ovviamente incerto, anche se ancora un po’ sfumato, però fondamentalmente possiamo scommettere sulla stabilizzazione della Libia. C’è anche una convergenza italo-francese, anche se ancora non blindata.

Verso la Turchia ci sarà pressione: il negoziato è già in corso; mancavano gli americani, ma adesso ci saranno. La Turchia chiederà qualcosa in cambio, ma non è ancora molto chiaro cosa. Le democrazie minacciano, a parole, il bastone contro Ankara, ma devono darle una carota sul piano economico. Anche se la Turchia tende a chiedere più di quello che è possibile.

La Russia invece mette sul piano negoziale con gli Stati Uniti la presenza nel Mediterraneo e nei dintorni. Mosca è presente negli scenari internazionali perché vuole essere riconosciuta come una potenza globale: ha paura di cadere nelle fauci della Cina, che vuole mangiarsela.

C’è comunque una buona chance che alla fine in Libia ci saranno meno soldati che combattono. Oltre alle presenze esterne, ci sono però duecento tribù in Libia che devono essere soddisfatte, e lo saranno soltanto con la piena ripresa della produzione petrolifera. Il quadro è comunque abbastanza positivo.

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