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Italiani

Italiani, brava gente?

Il Bloc Notes di Michele Magno

Una delle definizioni più brillanti e argute del tradimento è certamente quella di Charles-Maurice de Talleyrand: “La trahison n’est qu’une question de temps”. “Quando non cospira, Talleyrand intrallazza”, diceva François-René de Chateaubriand. In effetti, il camaleontico principe di Benevento era passato indenne — e sempre in posizioni di prestigio — dall’Antico Regime alla Rivoluzione, dal Direttorio al Consolato, da Napoleone alla Restaurazione di Luigi XVIII, e poi alla monarchia di Luglio. Oggi sulla scena italiana non ci sono personalità del calibro dello “stregone della diplomazia”, come fu chiamato Talleyrand. In compenso, non mancano i prestigiatori del trasformismo. Del resto, siamo pur sempre il paese di Machiavelli e Guicciardini, di Depretis e Fregoli, del 25 luglio 1943 e di Badoglio, degli ex comunisti smemorati e degli ex fascisti incensurati. Degli italiani brava gente, insomma.

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Selezionare un personale elettivo che curi esclusivamente l’interesse generale è in democrazia “mission impossible” (o quasi). Lo aveva capito Gaetano Mosca, un conservatore a tutto tondo. Per il padre della scienza politica moderna gli elettori non premiano i più dabbene e i più capaci, ma i più pronti ad assecondarli. In questo senso, lo scandalismo è stato sempre un buon combustibile per i giornalisti e gli imprenditori del dossieraggio usato per distruggere gli avversari politici.

Beninteso, una politica rispettosa della legalità è cosa necessaria e buona. Ma le radici della cattiva politica non affondano soltanto nella politica medesima, come se la società italiana fosse un’oasi incontaminata di virtù civiche. Lo sappiamo da molto tempo: la violazione delle regole non solo vi è ammessa largamente, ma è un lubrificante del suo funzionamento. D’altronde, chi non ha mai parcheggiato in doppia fila o ha dimenticato di chiedere la fattura all’idraulico? Un pezzo di economia prospera solo così.

Si può alzare “il costo morale dell’immoralità” (codici etici di partiti, imprese, pubbliche amministrazioni) quanto si vuole, ma niente potrà sostituire la forza cogente del diritto: leggi ben fatte, processi celeri, certezza della pena, magistratura inquirente efficiente, forze dell’ordine dotate di mezzi adeguati. Non servono insomma poteri straordinari contro la corruzione. Serve che i poteri ordinari vengano esercitati con straordinario rigore. Tutto il resto è noia.

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“Il voto segreto è il rifugio dei deboli, dei senza carattere, degli indisciplinati interiori che al di fuori fanno i conformisti senza dignità…Una democrazia che si rispetta non ammette il voto segreto tranne per le questioni personali” (Luigi Sturzo, “Pensieri liberali”, Armando editore, 2000). Facendo un’analisi dei costi e benefici, il ricorso al voto segreto per il ddl Zan non è stata una mossa brillante. Sono però convinto che la vera anomalia italiana sia costituita dall’abuso del voto segreto, più che del voto di fiducia. Certo, il fenomeno dei “franchi tiratori” è sempre esistito. Solo che ha cambiato natura. Da espressione di piccole vendette personali, è diventato un’arma per far naufragare maggioranze e progetti di governo.

È qui in discussione quel coraggio di manifestare pubblicamente la propria opinione che conferisce nobiltà alla politica: “[…] Io non voglio entrare nel merito dell’ammissibilità o meno di questo mezzo di votazione alla Camera. Però mi ripugna che si faccia richiamo, niente meno che nel testo costituzionale, a questo sistema particolare di votazione del quale si possono dire due cose: da un lato tende ad incoraggiare i deputati meno vigorosi nell’affermazione delle loro idee e dall’altro tende a sottrarre i deputati alla necessaria assunzione di responsabilità di fronte al corpo elettorale, per quanto hanno sostenuto e deciso nell’esercizio del loro mandato” (Aldo Moro, Assemblea costituente, seduta del 14 ottobre 1947).

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È merito di Hannah Arendt, al di là di alcune forzature presenti nelle sue tesi, la lettura del totalitarismo novecentesco come forma politica assolutamente nuova e diversa dalle altre forme storicamente conosciute (dispotismo, tirannide, dittatura,assolutismo, autocrazia). L’essenza di questa nuova e diversa forma politica per la filosofa tedesca era il terrore, e il suo principio di azione era nel pensiero ideologico. L’ideologia totalitaria pretende infatti di spiegare con granitica certezza il corso della storia: i segreti del passato, l’intrico del presente, le vie del futuro: “Rimane il fatto — scriveva profeticamente la Arendt — che la crisi del nostro tempo e la sua esperienza centrale hanno portato alla luce una forma interamente nuova di governo che, in quanto potenzialità e costante pericolo, ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire” (“Le origini del totalitarismo”, 1951).

Totalitarismo viene da “totalità”, e quindi esprime qualcosa che abbraccia e pervade tutto. Europa e Stati Uniti ci misero un bel po’ di tempo prima di capire la vera natura dell’espansionismo e dell’egemonismo hitleriano. Stanno commettendo lo stesso errore con il fondamentalismo islamista? Basti pensare all’Arabia Saudita, patria dell’estremismo salafita-wahabita, che continua a godere di una sorta di immunità diplomatica a Washington e nelle cancellerie europee. Ma quello che muove i foreign fighters e i militanti jihadisti che vivono nelle periferie delle nostre città non è solo il fanatismo religioso — soprattutto nella versione premiale del “paradiso dei martiri” — ma un’ideologia totalizzante. L’islam radicale appare loro come l’unica utopia rivoluzionaria capace di dare identità, di opporsi a una cultura che disprezzano e di sovvertire realtà sociali da cui sentono di essere disprezzati.

 

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