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Inferno

L’inferno è incostituzionale

Il Bloc Notes di Michele Magno

“L’inferno è incostituzionale”. Al teologo Lucio Lombardi Vallauri questa affermazione una ventina d’anni fa costò l’insegnamento all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Chi scrive non ha invece niente da perdere, e per questo si permette di insistere: l’inferno è incostituzionale perché tra una pena infinita e una colpa finita non c’è proporzione. L’argomento che è infinita l’offesa perché è infinito l’offeso, cioè Dio, porterebbe a considerare infinito ogni peccato, il che non è ovviamente possibile. Inoltre, l’inferno è incostituzionale perché è contrario al sentimento di umanità e non prevede la rieducazione del condannato. Sconta cioè un ineluttabile fallimento etico e pedagogico. Ragione che forse spiega una micidiale battuta di Ennio Flaiano sul nostro carattere nazionale: “L’inferno che l’italiano si ostina a immaginare è un luogo dove, bene o male, si sta con le donne nude e dove coi diavoli ci si mette d’accordo”.

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Il  “Vade retro Berlusconi dal Colle” che abbiamo sentito da più parti in questi giorni non è altro, in fondo, che una sorta di traslitterazione della formula canonica adoperata dagli esorcisti nei loro rituali. Certo, il Cavaliere non è Satana, che si crede “il principe di questo mondo” (ma chissà, forse un po’ ci crede). Tuttavia, in quanto seminatore di discordie e menzogne, evidentemente ai suoi nemici è parso degno di essere accostato al diavolo, che è il mentitore per eccellenza (il termine diavolo deriva dal verbo greco “diabàllo”, che significa dividere, creare -attraverso l’inganno- inimicizia tra gli uomini e tra l’uomo e Dio).

Pure, non avrei trascurato, per la sua forza e semplicità francescana, l’esorcismo che il poverello di Assisi insegnò a frate Ruffino tentato assiduamente dal demonio che, in figura di Cristo, lo esortava ad abbandonare la via ascetica. Poiché non servivano preghiere e digiuni, Francesco gli consigliò ciò che doveva dire al demonio ove si ripresentasse per tentarlo. Ruffino obbediente mise in pratica il suo insegnamento. Ecco il diavolo che gli dice: “Che ti giova affliggerti mentre che tu se’ vivo, e poi quando tu morrai sarai dannato? E subitamente frate Ruffino risponde (con le parole suggerite dal poverello di Assisi): Apri la bocca; mo’ vi ti caco. Di che il demonio isdegnato, immantinente si partì con tanta tempesta e commozione di pietre di monte Subasio ch’era in alto, che per grande spazio bastò il rovinio delle pietre che caddono giuso” (“I Fioretti di san Francesco”, Città Nuova, 1999).

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Nel 1822 Gioacchino Rossini rese visita a Beethoven nella sua casa di Vienna,  famosa per essere un tugurio dal soffitto sfondato e col pitale sempre sul pianoforte. Dopo uno scambio di opinioni sulle tendenze musicali dell’epoca, il genio di Bonn lo congedò invitandolo a comporre in futuro solo opere buffe perché gli italiani non erano fatti per l’opera seria. Anche se sette anni più tardi il genio di Pesaro lo avrebbe clamorosamente smentito con il “Guglielmo Tell”, un capolavoro del teatro romantico, l’aneddoto è significativo. Infatti, attesta la circolazione nel milieu culturale dell’impero asburgico ottocentesco di un’idea polemica del nostro carattere nazionale, sordo alle profondità del dramma. Dopo la sconfitta di Hitler, nel “Doctor Faustus” (1947) Thomas Mann riprese questa rappresentazione dell’anima prosaica e “spensierata” dei discendenti di Enea  contrapponendola a quella del popolo tedesco, impavido nel percorrere fino in fondo il suo destino catastrofico.

Nei suoi “Ricordi tristi e civili” (Einaudi, 2001), Cesare Garboli ha smontato in un paio di paginette magistrali la mitologia del teutonico descritta -in termini ora dionisiaci ora nibelungici- dal grande romanziere di Lubecca. Non c’è dubbio, tuttavia, che così ci hanno visto, e ancora ci vedono, gli innumerevoli viaggiatori scesi dal nord per godersi il mare e il sole che tanto ci invidiano: politicamente cinici ma deboli, sentimentali, festevoli; inclini a recitare, cantare, ridere. Insomma, come la patria di Machiavelli per chi ha studiato, o di Pulcinella e Arlecchino per gli illetterati.

È però mai possibile che sia davvero questo il paese che ha subito la tragedia del regime mussoliniano e che oggi vede in campo per la presidenza della Repubblica un signore per il quale l’antifascismo è diventato una polvere, la forfora che si spazza via dall’abito prima di una passeggiata? La domanda non è oziosa, soprattutto in tempi in cui l’atavico istinto gregario della maggioranza degli italiani rischia di essere risvegliato da un Cavaliere, forse senza paura ma con qualche macchia, che si vanta di fottersene del passato. Pure la politica senza la storia, osservava Alessandro Manzoni, è come un cieco senza una guida che gli indichi la via. C’è solo da sperare, quando lunedì prossimo si apriranno le danze quirinalizie, che i ballerini orbi aprano gli occhi.

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