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Il suicidio della sinistra organizzato da Landini

Maurizio Landini è stato l’unico ad avere in testa una strategia sul referendum: che non era quella di vincere, ma di presentarsi come un’alternativa all’attuale gruppo dirigente del PD e dei 5 Stelle. L'analisi di Gianfranco Polillo

Dispiace che la sinistra o meglio l’armada referendaria perseveri diabolicamente nell’errore. Inciampare in un incidente può succedere a tutto. Ma su questo ostacolo costruire una risposta ancora più inadeguata non capita tutti i giorni. L’errore iniziale fu quello di tentare di portare indietro le lancette della storia. Tornare, in altre parole, al marzo o al dicembre del 2014, quando il Parlamento varò quei provvedimenti, fortemente voluti da Matteo Renzi, come Presidente del Consiglio. Si trattò, allora, di un comportamento antisindacale o di “destra”, di un odio nei confronti dei lavoratori? Difficile crederci, tanto più che l’antesignano di quella riforma, seppure con caratteristiche diverse, era stato in America: Barak Obama. Un mito per la sinistra europea.

L’iniziativa della CGIL, da un lato, quella dei radicali dall’altro hanno prodotto un piccolo disastro. Non sono riusciti a mobilitare gli elettori, che in massa hanno disertato le urne. Sconfitta cocente, subito minimizzata. “I 14 milioni di voti e la piazza di Gaza – secondo l’intervista rilasciata da Elly Schlein a Repubblica – dicono NO a questo governo.” Piccola furbata, quasi un furto senza destrezza. I SÌ a favore dei referendum promossi da Maurizio Landini sono stati poco più di 12 milioni. Gli altri 2 erano invece contrari all’abrogazione. La Schlein invece ha sommato capre e cavoli. Per intestarsi l’intera quota dei partecipanti al voto. Procedura non solo incongrua, ma controproducente. Se 14 milioni di elettori hanno votato contro il Governo, gli altri 31 milioni, che non sono andati a votare, lo hanno forse appoggiato?

La verità è che, in questa foga giustificazionista, la sinistra ha perso il ben dell’intelletto. Non riuscendo più a distinguere tra policy, politics e polity. Che invece rappresenta l’abc di qualsiasi trattato di sociologia politica. Il primo termine (policy) si riferisce al merito delle azioni del Governo o del decisore pubblico. Da questo punto di vista il referendum abrogativo ha sempre come oggetto una policy. Nel caso specifico i quesiti erano così complessi da richiedere, ai fini di un voto consapevole, come minimo, una laurea giuslavorista. Politics rappresenta, invece l’attività svolta per il governo di uno stato, il suo modo di governare, l’insieme dei provvedimenti con cui si cerca di raggiungere determinati fini, sia sul piano interno che internazionale. Celebre la definizione di Max Weber: “ una leadership indipendente in azione.” Per polity, infine, si intendono i tratti più specifici che caratterizzano le singole comunità: i loro valori, la loro forza e così via.

Se fosse stata chiara questa distinzione non ci sarebbe stata alcuna traslazione. I voti del referendum sono a sé stanti, come lo sono i voti che portano alla leadership nazionale o locale. Confondere i termini, porta inevitabilmente ad un fraintendimento ed all’illusione che i voti conquistati in un campo possono essere riposti in cassaforte, per poi essere usati nel momento più opportuno per cambiare l’asse della politica nazionale, mandando a casa i relativi responsabili. La Schlein avrebbe dovuto essere più cauta. Se il Governo, al termine della legislatura, non dovesse essere riconfermato, non saranno stati, certo, i 12 milioni di voti raccolti contro il Jobs Act a determinarne la fine. Ma circostanze, al momento, imprevedibili.

Se questo è lo schema corretto, resta il grande interrogativo. Ma perché la sinistra ha voluto correre il rischio di una sconfitta annunciata. Che il quorum non si sarebbe raggiunto era chiaro fin dall’inizio. E non certo a causa della posizione assunta dalla maggioranza parlamentare. Bastava andare indietro nel tempo e vedere come l’istituto del referendum era progressivamente regredito. Né alla CGIL mancavano gli strumenti per una simile verifica. Pur non conoscendo la situazione attuale, non si può non ricordare l’importanza avuta dall’Ufficio studi di quell’organizzazione che, in passato, espresse uomini come Giuliano Amato, primo presidente dell’Ires, o Fabrizio Cicchitto. Solo per citarne alcuni.

Ebbene, la storia dei referendum, in Italia, è stata caratterizzata da due distinti periodi. Il primo che va dal maggio del 1974 – la battaglia per mantenere in vita il divorzio da poco diventato legge, ma solo a condizione che potesse poi essere sottoposto a referendum, all’uopo istituito – al giugno del 1995. Data quest’ultima che si caratterizzò per una sfilza di ben 11 referendum su vari argomenti: alcuni di natura sindacale, altri relativi al sistema televisivo; altri ancora relativi agli orari dei negozi o al sistema elettorale dei comuni. Comportarono, da parte dell’elettorato, un esercizio di pazienza quasi sovrumano. Che, in generale premiò il gruppo parlamentare – i Radicali – che li avevano promossi. Ma rappresentò anche il canto del cigno dell’istituto. In totale i referendum lanciati durante questa prima fase erano stati 38: 35 avevano superato il quorum richiesto, 3, invece, non lo avevano raggiunto.

La musica cambiò radicalmente, a partire dal giugno del 1997. Nessuno dei 7 referendum lanciati dai Radicali, su varie materie (privatizzazioni, obiezione di coscienza, caccia, carriere dei magistrati, ordine dei giornalisti, Ministro dell’agricoltura) raggiunsero il quorum richiesto. E la stessa avventura toccò ai successivi 28 tentativi (compresi quelli dello scorso 7 e 8 giugno scorso). Solo in quattro casi (affidamento e gestione dei servizi pubblici locali, gestione dell’acqua, proibizione del nucleare e legittimo impedimento per le alte cariche dello Stato) i risultati furono positivi. Non si dimentichi tuttavia che poco prima c’era stata Cernobyl. La grande paura aveva fatto da traino non solo spingendo gli Italiani alle urne, ma alimentando una foga compulsiva nel votare SI per tutti i rimanenti quesiti. L’abrogazione delle relative norme fu infatti decisa con una maggioranza pari al 54,8 per cento in tutti e quattro i casi. Furono le uniche eccezioni  della lunga stagione referendaria (un totale di 39 proposte) che si concluse, invece, negli altri 35 casi con una totale sconfitta da parte dei proponenti, per la mancanza del quorum.

Dato questo retroterra, riferito agli ultimi 30 anni, solo un incosciente avrebbe potuto scommettere su un ipotetico successo. Nonostante quest’handicap evidente la mobilitazione da parte dei principali dirigenti della sinistra non era mancata: tutti trascinati da Maurizio Landini. L’unico, a quanto sembra, ad avere in testa una strategia. Che non era quella di vincere, ma quella di presentarsi come un’alternativa all’attuale gruppo dirigente del PD e degli stessi 5 Stelle. Non proprio un OPA sui rispettivi partiti e movimenti. Ma qualcosa di molto simile. Si vedrà nei prossimi mesi. Ma se fossimo in Elly Schlein ed in Giuseppe Conte non dormiremmo sonni tranquilli.

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