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Mercante Di Venezia

Il rapporto tra economia e etica nel “Mercante di Venezia” di Shakespeare

Il Bloc Notes di Michele Magno

“Il mercante di Venezia” (1596-1598) è una delle opere teatrali più discusse e controverse di William Shakespeare. Come ha notato l’eminente accademico statunitense Richard Sennet, la sua trama ruota attorno a una singolare circostanza (“Lo straniero”, Feltrinelli, 2016). Shylock, facoltoso usuraio ebreo, odia — ricambiato — i cristiani. Tuttavia, concede un prestito a Bassanio di tremila ducati con la fideiussione (si direbbe oggi) del suo amico Antonio. Ma, se non sarà restituito entro tre mesi, chi lo ha garantito dovrà risarcire il danno con una libbra di carne del proprio corpo. La buona sorte volta le spalle ad Antonio, le navi che trasportano tutte le sue ricchezze si perdono in un naufragio. Shylock allora pretende che la clausola venga onorata.

Il sistema economico dell’epoca (siamo nel XVI secolo) faceva ampio uso di contratti sulla parola; pur essendo talvolta registrati, decisiva era la parola data a conferma del proprio impegno. Come vengono descritti dallo storico americano Frederic C. Lane, i trasferimenti di denaro avvenivano nel modo seguente: “Chi faceva un pagamento compariva di persona davanti al banchiere, che stava seduto dietro a un banco sotto il portico di una chiesa di Rialto, col suo registro aperto davanti. Il pagatore incaricava oralmente il banchiere di effettuare un trasferimento sul conto della persona a cui era destinato il pagamento” (“Storia di Venezia”, Einaudi, 2015).

A Rialto, dunque, cuore pulsante dei commerci della repubblica marinara, ogni giorno si facevano mille affari senza guarentigie governative, perché una buona reputazione era condizione necessaria e sufficiente. Per altro verso, fuori dal teatro i sudditi di Elisabetta I trattavano gli ebrei come animali, creature umane dimezzate, alle quali non si poteva dare fiducia. In qualche misura Shakespeare accentua questi pregiudizi, trasformando Shylock in una specie di cannibale.

Tutto farebbe pensare che il Doge dichiari il contratto immorale e, di conseguenza, nullo. Ma appena uno dei personaggi minori pronostica questa conclusione, Antonio subito obietta: “Il Doge non può fermare il corso della legge”. Spiega, poi, che questa è una delle ragioni che stanno alla base della prosperità di Venezia: “Se agli stranieri venissero negati/ I benefici goduti qui a Venezia/ Lo stato ne verrebbe gravemente screditato,/ Dacché il commercio e i profitti della città/ Provengono da tutte le razze” (“Il mercante di Venezia”, a cura di Agostino Lombardo, Feltrinelli, 2013).

Il Bardo solleva così l’eterna questione dei rapporti tra economia e etica. Antonio si spinge ancora oltre: in ragione dei “benefici” i patti vanno rispettati, al di là della moralità di chi li sottoscrive. Perfino il cannibalismo deve essere tollerato, se entrambi i contraenti sono d’accordo. Così concepito, il contratto appare come una forza in grado di generare autonomamente i propri diritti, le proprie rivendicazioni e i propri privilegi: nessuna legge superiore, nessuna autorità esterna può interferire con le sue procedure.

Di fronte al Doge che cerca di farlo recedere dal suo proposito, Shylock reagisce schernendolo con insolenza perché sa di non avere torto. Questo è ciò che intende Porzia, l’ereditiera che Bassanio vuole sposare, quando afferma che “a Venezia non c’è potere che possa modificare una legge in vigore”. E la legge è l’accordo che Antonio e Shylock hanno stretto attraverso una trattativa verbale. Shakespeare — sottolinea Sennett — stabilisce così un collegamento che cominciava a prendere forma nel Rinascimento: quello tra libertà di parola e inviolabilità del contratto. La libertà economica deriva dalla libertà di parola.

L’immagine stereotipata dell’ebreo avido ha esposto il dramma shakesperiano all’accusa di antisemitismo. In realtà, Shylock è una figura tragica quanto complessa. Il suo monologo più famoso è un tentativo di restituire dignità al corpo agli ebrei: “Un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, membra? […] Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate un torto non dobbiamo vendicarci?”. Un discorso che chiama in causa l’universalità dei diritti inalienabili dell’individuo, ossia che tutte le persone hanno uguali diritti, anche quello alla vendetta.

Dopo aver costruito un grande dramma centrato sul contrasto tra legge e morale, nel quarto atto arriva il colpo di scena. Porzia, travestita da avvocato, incalza Shylock: può prendersi pure una libbra di carne, ma non una goccia di sangue perché il contratto non lo prevede; inoltre, può pure tagliarne una libbra, ma non un grammo in più o in meno. Poiché è impossibile essere scientificamente precisi fino a tal punto, la partita è chiusa. Non del tutto, però. Nel senso che l’usuraio subisce una seconda sconfitta, questa volta nella sfera degli affetti familiari. Jessica, sua figlia, si innamora di un cristiano e lo abbandona, dopo averlo derubato del suo tesoro, insieme alla sua fede.

Raccontata così sembra una donna abietta, ma all’interno dell’opera risulta assolutamente incantevole. Del resto, Shakespeare non concepisce l’essere ebreo come una maledizione, o come lo stigma di un’etnia o addirittura di un’identità culturale. Per lui essere ebreo non significa altro che indossare un certo tipo di abiti, di cui ci si può disfare se, per esempio, capita di invaghirsi di un uomo. L’astuzia che usa Porzia contro Shylock comunica la stessa “leggerezza”. Ciò deriva, a giudizio di Sennett, dal fatto che Shakespeare aveva intuito l’implicazione etica della giurisprudenza sulla stipulazione dei contratti: la libertà di parola è un’arma a doppio taglio. Con l’arringa di Porzia, la rabbia implacabile di Shylock viene liquidata, e la nobiltà della sua orazione sul corpo degli ebrei viene dimenticata.

Ma, per Shakespeare e i suoi contemporanei, era in fondo questa la caratteristica di Venezia: una città cosmopolita che si era emancipata dal dominio religioso, in cui il bene e il male finiscono per non avere importanza.

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