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Il movimentismo di Salvini fa davvero bene alla Lega?

Fini e rischi dell’attivismo movimentista di Salvini. Il commento di Polillo

 

A quanto pare, Matteo Salvini, più si agita e più la Lega perde consensi. Le ultime rilevazioni di Nando Pagnoncelli, dalle pagine de Il corriere della sera, sono impietose. Solo in quest’ultima settimana Fratelli d’Italia avrebbe guadagnato 3,8 punti percentuali sui voti della Camera, raggiungendo quota 29,8 per cento; mentre la Lega avrebbe perso lo 0,8 per cento e Forza Italia addirittura il 2 per cento. Il distacco, quindi, tra il partito di Giorgia Meloni ed i suoi due riottosi alleati aumenta di 5,8 punti. Fossimo nei panni del “capitano”, un pensierino su quanto sta avvenendo lo faremmo.

L’elemento di preoccupazione è dato non tanto da quest’ultimo sondaggio, quanto dal susseguirsi dei dati che si trascinano dal 2017 ad oggi. Dati che le proiezioni di “Termometro politico” rendono da tempo disponibili per tutti gli analisti della politica. Nella rappresentazione grafica dei sondaggi settimanali alcune date risultano particolarmente significative. A dicembre del 2017, Lega e Forza Italia erano testa a testa, con uno scarto, a favore della seconda formazione, di un paio di punti. Distanza che si manterrà fino alla vigilia delle elezioni del 2018, per poi subire una smentita dai risultati finali. Che vedranno la Lega primo partito del centro destra, pronto a spiccare il volo nel Governo giallo – verde.

Quella prima esperienza governativa di una Lega, ormai emancipata dall’abbraccio di Forza Italia, porterà fortuna a Matteo Salvini. Impegnato come mai nella caccia contro i clandestini, dal fortino del Viminale. In ciò aiutato dal susseguirsi degli errori dei 5 stelle: absolute beginner nell’esercizio della delicata funzione di governo. In meno di un anno i consensi a favore della Lega, dilagando, raggiunsero, con le elezioni europee del 26 maggio 2019, il 34,3 per cento dei voti. Confinando Forza Italiana in uno spazio limitato (8,8 per cento) e lasciando Fratelli d’Italia, ancora fuori dal grande gioco, con una percentuale del 6,4 per cento. E non era finita. Il 1 luglio dello stesso anno, i sondaggi indicarono per la Lega il 37,5 per cento dei consensi. Il top, prima dell’inversione del ciclo.

Ancora oggi é difficile comprendere il perché di quel cambiamento negli umori profondi dell’elettorato italiano. Unica certezza, visibile ex post, il ripensamento. Come se i risultati delle precedenti elezioni fossero state una sorta di raptus, e che all’innamoramento del momento dovesse seguire l’inevitabile disincanto. Un exit lento, ma continuo e sistematico. Le proiezioni grafiche, costruite sui singoli valori dei consensi espressi, a partire dai primi di novembre del 2019, sono rappresentate da una retta inclinata negativamente, settimana dopo settimana. Non quindi una falla improvvisa, ma un lento bradisismo fino si risultati elettorali ultimi. Ed ancora più giù.

Che cosa non ha funzionato? Probabilmente – questa almeno la nostra interpretazione – un certo immobilismo culturale, ancor prima che politico. Un conto é dirigere un partito del 12 per cento, un altro è essere alla testa di una formazione che pesa, per il 34 per cento, sullo schieramento elettorale. La comunicazione politica doveva pertanto cambiare. Com’é progressivamente cambiata quella dei Fratelli d’Italia, soprattutto di Giorgia Meloni. Ed invece tutto é rimasto come prima. O quasi. Rischio che la coalizione nel suo complesso dovrebbe, oggi, evitare come la peste.

Tanti i temi in cui il continuismo é stato dominante. A partire dalla politica estera, dove le divergenze sono reali. Da un lato l’atlantismo “senza se e senza ma” di Giorgia Meloni, dall’altro i dubbi concorrenziali tra la Lega e Forza Italia. Nelle dichiarazioni di voto al Senato, Massimiliano Romeo, a nome della Lega, invitava il Presidente del consiglio ad “impostare un discorso di negoziati di pace”. Essendo convinto che “la volontà degli ucraini vada rispettata, ma sarebbe meglio dire che deciderà la comunità internazionale nell’interesse dell’Ucraina”. Sempre che, non si può far a meno di aggiungere, vi sia qualcuno in grado di definire, dall’esterno, quale debba essere quell’interesse.

Risposta immediata da parte di Silvio Berlusconi, nell’intervista concessa a Bruno Vespa, per il suo ultimo libro: basta armi a Zelensky, ma un grande piano di investimenti per ricostruire le zone distrutte dalla guerra. Quindi un referendum, con controllo occidentale, sui destini del Donbass. Con la Crimea definitivamente assegnata alla Russia. E le regioni di Kherson e Zaporizhzhia? Obiezione di Bruno Vespa. Nessun accenno. Come nessun commento al fatto che una simile proposta porterebbe direttamente alla fine unilaterale delle sanzioni, senza alcun impegno concreto da parte di Putin. Quando é proprio quest’ultimo che dovrebbe dimostrare una disponibilità reale al negoziato. Compiendo i necessari atti preliminari.

Diversità profonde, come si vede. Destinate inevitabilmente ad aprire altri fronti. Ed ecco allora la storia del contante, l’idea di congelare per sei mesi una parte del reddito di cittadinanza al fine di recuperare le risorse necessarie per quota 102 sul fronte pensionistico. Quindi le forzature sul Covid, per giungere, infine, alle nuove iniziative per il ponte di Messina. C’é in quest’affastellarsi di iniziative l’evidente volontà di prescindere dal rispetto dei tempi. Indispensabili per avere a disposizione un quadro più organico, in cui evidenziare l’entità delle risorse disponibili, sulla base delle quali selezionare le singole priorità programmatiche.

Insomma un movimentismo comunicativo, da un lato; i passi guardinghi di un Governo che vuole avere come orizzonte l’intera legislatura. Questo, almeno, il messaggio che si ricavava dall’intervento di Giorgia Meloni, nel suo discorso programmatico di qualche giorno fa. Messaggio che le stesse opposizioni non hanno voluto comprendere. Ma, in quel caso si trattava, appunto, degli oppositori. Negli altri, invece, degli alleati. O no?

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