Skip to content

Sindacato Intelligenza Artificiale

Il mestiere del sindacato nell’era dell’intelligenza artificiale

Il Bloc Notes di Michele Magno

Chiunque (come chi scrive) abbia avuto la fortuna di incontrare il sindacato confederale nell’epoca del suo massimo potere, vale a dire nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, sicuramente ha conosciuto un ambiente umano davvero speciale. Non mi riferisco soltanto ai suoi capi o alle straordinarie lotte di quel periodo. Penso anche a quei dirigenti di seconda fila, a quei delegati o semplici attivisti che, ciascuno con la propria piccola storia fatta di rinunce e di generosità, hanno contribuito a costruire una formidabile esperienza di civilizzazione del lavoro. Per loro si poteva davvero utilizzare quella parola “servizio” che successivamente non di rado ha assunto un significato falso e ipocrita. Una risorsa che certamente non basta a spiegare l’ascesa delle confederazioni verso ruoli impensabili nell’immediato dopoguerra. Ma forse spiega la loro tenuta organizzativa anche quando si sono manifestati i primi segni di un graduale declino, quanto meno rispetto ai livelli di prestigio e di consenso raggiunti nell’era della “centralità operaia”.

La nostalgia per questa realtà che fu, è comprensibile, ma non porta da nessuna parte. La verità è che è finito il ciclo dei “santi minori” (copyright di Bruno Manghi), come si è estinta la razza di quei leader carismatici che sono stati protagonisti delle svolte strategiche e delle culture storiche del movimento sindacale: cristiana, comunista, socialista e altre ancora. Perciò ricercare oggi la consistenza etica e ideale del suo “mestiere” ricorrendo a quegli esempi, è un esercizio sterile. Anzi, può prestarsi al gioco retorico di chi celebra gli eroi nei giorni di festa per insegnare la furbizia e il cinismo nei giorni feriali; e di dare ai sindacalisti “buoni consigli”, che spesso diventano predicozzi tipo “tutto cambia e voi no”.

Tuttavia, senza una solida conoscenza dei cambiamenti strutturali della demografia, della società e della produzione (non solo manifatturiera), è difficile dare la giusta risposta alle paure che hanno sempre suscitato le novità: paura della fabbrica perché abbrutiva l’operaio; paura della macchina perché alienava il lavoratore; paura del robot perché distrugge posti di lavoro. Una paura, quest’ultima, che contraddice una verità elementare, pervicacemente contestata da tutti i neoluddisti del terzo millennio: ogni rivoluzione tecnologica comporta la nascita di lavori nuovi e, parallelamente, la trasformazione di vecchi lavori, determinandone spesso la marginalità o la scomparsa.

Ce ne offre un lucido ritratto -celebrato da Marx- il romanzo “I due poeti”, con cui Balzac apre il ciclo delle “Illusioni perdute” (1837-1843): “All’epoca in cui comincia questa storia -scrive- la macchina di Stanhope e i rulli inchiostratori non erano ancora entrati nelle piccole stamperie di provincia”. Nella tipografia descritta nelle prime pagine del romanzo sopravvivono perciò “Orsi” e “Scimmie”, cioè i torcolieri che si muovono tra le tavolette su cui è disteso l’inchiostro e il torchio, e i compositori, che fanno una “ininterrotta ginnastica […] per prendere i caratteri nei centocinquantadue cassettini in cui sono contenuti”. Tutte figure professionali e mansioni destinate a scomparire, poiché le loro funzioni sarebbero state svolte da macchine: il torchio a vapore, la rotativa, la linotype.

Ovviamente, non è qui possibile stilare un elenco dei nuovi mestieri legati alla rivoluzione informatica in corso. E allora: quando pensiamo al futuro del lavoro, a cosa pensiamo? A fabbriche popolate solo di braccia meccaniche che si muovono freneticamente? Ai professionisti delle “Stem” (scienza, tecnologia, engineering e matematica) che diventano il cuore pulsante dell’impresa? All’intelligenza artificiale che si sostituisce all’intelligenza umana? A un algoritmo che taglia senza pietà costi e occupati? Sono scenari apocalittici che non basta esorcizzare o maledire. Vedere la storia come un susseguirsi di fregature e di tradimenti, per cui il mondo migliore è sempre quello che non c’è, significa consegnarsi all’irrilevanza politica nel mondo che c’è.

*Italia Oggi

Torna su