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Governo Giudici

Il governo dei giudici (secondo Cassese)

"Il governo dei giudici" di Sabino Cassese letto da Tullio Fazzolari

 

Dovrebbe essere una certezza assoluta e invece la giustizia italiana sembra soprattutto un focolaio di polemiche. Da anni ormai c’è continuamente un motivo per cui se ne discute: la lentezza nei processi, alcune sentenze discutibili, l’utilizzo mediatico delle indagini, la separazione delle carriere dei magistrati, gli scontri fra procure della Repubblica e la politica. Senza dubbio tutti argomenti che meritano attenzione. Ma quando le polemiche si susseguono senza sosta e scadono nella rissa si finisce per trascurare quali sono le cause del problema il che rende ancora più difficile pensare lucidamente ai rimedi.

Una ricostruzione precisa di quanto è successo alla giustizia italiana riesce a farla Sabino Cassese con “Il governo dei giudici” (Laterza, 104 pagine, 12 euro). La prima osservazione importante è che non si tratta di un libro di parte. E del resto da uno dei più autorevoli giuristi italiani non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso. Così si esce finalmente dal solito schema di guerra per bande che ormai da decenni vede in contrapposizione magistratura e politica oppure faide interne tra i giudici. Punto di partenza dell’analisi di Cassese non è un’opinione ma una desolante constatazione e cioè la crisi di un’istituzione fondamentale della nostra Repubblica. Stando ai sondaggi, la fiducia degli italiani nella magistratura, che nel 1994 raggiungeva il 66 per cento, nel 2017 era già diminuita al 40 per cento. E, secondo i dati dell’Eurobarometro, l’apprezzamento è ulteriormente sceso al 37 per cento. Numeri a parte, è comunque un segnale preoccupante della perdita di credibilità del sistema giudiziario.

La causa di questo declino va cercata, innanzi tutto, proprio all’interno della magistratura composta, come scrive Cassese, “da persone mediamente ben preparate ma chiusa in se stessa, corporativa” e di fatto “incapace di far maturare proposte di ordinamento migliori”. È in sintesi la descrizione di un mondo a parte  che però contiene al suo interno profonde differenze fra i “molti laboriosi” e i “pochi scansafatiche” e, soprattutto, fra “i molti silenziosi” e i “pochi ciarlieri”. Che ci siano modi diversi di interpretare il ruolo di giudice in teoria non è un problema. Anzi dovrebbe rientrare pienamente nell’indipendenza della magistratura sancita dalla carta costituzionale. I risultati degli ultimi trent’anni dimostrano però che qualcosa non ha funzionato.

Il sistema che garantisce l’indipendenza attraverso il CSM si è trasformato in autogoverno ma le lotte fra la varie correnti hanno badato più alla spartizione degli incarichi che a tutelare l’autonomia dei giudici. La politica, ovvero governo e Parlamento, hanno aggravato la situazione con leggi che hanno ampliato all’eccesso le competenze del sistema giudiziario aumentandone non solo il carico di lavoro ma anche, di fatto, la discrezionalità. Né ha giovato la commistione quasi a senso unico fra politica e magistratura perché se è vero che quest’ultima deve essere indipendente è però altrettanto vero che molti magistrati entrano in politica non soltanto in Parlamento quanto o soprattutto nei posti cruciali dell’amministrazione statale. “Il governo dei giudici” mette in evidenza tutto ciò che squilibrato il sistema. E non sarà facile rimetterlo a posto.

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