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Thomas Hardy

Due processi, due sentenze

Il Bloc Notes di Michele Magno

Il sipario sul Seicento inglese cala idealmente con l’approvazione nel 1689 del “Bill of Rights”, pietra miliare del costituzionalismo liberale. Figlio della “Gloriosa rivoluzione” del 1688, che rovescia Giacomo II e insedia sul trono Guglielmo III d’Orange, limitava l’impiego smodato e discrezionale dell’accusa di tradimento, per ricondurlo nell’alveo di una giustizia sostanziale. È allora che inizia a profilarsi il concetto di presunzione d’innocenza. Più in generale, si delinea una nuova concezione dei diritti individuali, fino al diritto di resistenza contro il sovrano che minacciava di sovvertire la volontà del popolo.

Più tardi, una legge del 1696 garantirà un collegio di difesa a ogni imputato, non più obbligato ad autoincriminarsi. Era quanto aveva rivendicato nel 1649 John Lilburne, il leader dei “levellers” in rotta di collisione con Oliver Cromwell, nel corso del processo a cui era stato sottoposto per istigazione all’ammutinamento. Purtroppo per lui, John Locke non aveva ancora scritto i “Due trattati sul governo” (1690).

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William Pitt (il Giovane), primo ministro del Regno Unito, si considerava un “whig autonomo” e non aveva nascosto le sue iniziali simpatie per la rivoluzione francese. Ma nel 1793 mette sotto torchio i gruppi riformatori britannici, temendone i collegamenti con l’ala radicale dei giacobini. L’azione repressiva è brutale, e si concretizza nella sospensione dell’habeas corpus e in un massiccio rafforzamento degli apparati di spionaggio. Il 12 maggio 1794 la polizia irrompe nella bottega di Thomas Hardy a Piccadilly Street, e lo arresta con l’accusa di “progettare la morte del re”.

Hardy era un calzolaio, esponente di spicco della “London Corresponding Society”, un’associazione di artigiani e commercianti vessati dal crescente aumento delle tasse e dei prezzi. Un punto centrale del suo programma era la convocazione di una “British Convention”, in cui discutere i problemi politici e sociali posti dalla nascente rivoluzione industriale. Pitt, sospettando un disegno insurrezionale (deporre il re e proclamare la repubblica), pensa di mettere fuori gioco la sua mente affidando l’accusa contro Hardy e i suoi coimputati all’Attorney General John Scott, considerato un accusatore infallibile. Nella sua abile arringa difensiva, l’avvocato Thomas Erskine smonta l’impianto tutto indiziario su cui poggiava il processo, confutandone la stessa legittimità.

Il 5 novembre 1794, mentre davanti all’Old Bailey si raduna una folla immensa, la giuria entra in aula per il verdetto. Il cancelliere pronuncia la formula di rito: “Signori della giuria, ritenete l’imputato colpevole o non colpevole del reato di alto tradimento?”. “Non colpevole”, risponde il primo giurato. La sentenza assestava un duro colpo al tentativo di mettere il bavaglio alle associazioni dei lavoratori. Solo sei anni più tardi Pitt riuscirà a dichiararle illegali con i “Combination Acts”.

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Il 22 ottobre 1774 Caterina II di Russia spedisce una lettera a Voltaire, in cui l’uomo su cui il filosofo francese aveva chiesto informazioni viene così descritto: “Non sa leggere né scrivere, ma è estremamente ardito e determinato […]. Egli immagina che possa accordargli la grazia in considerazione del suo coraggio […]. Se avesse offeso solo me il suo ragionamento avrebbe potuto funzionare e lo avrei perdonato. Ma qui la causa in gioco è quella dell’Impero, che ha le sue leggi”. L’uomo su cui tutta l’Europa si stava interrogando era Ivanovič Pugačëv. Aveva iniziato la sua ribellione nel 1772, sostenendo di essere lo zar Pietro III, marito di Caterina, misteriosamente scomparso nel 1762 in seguito a una congiura di palazzo ordita dalla stessa zarina e dal suo amante Grigorij Orlov.

Nel giro di pochi mesi Pugačëv, dotato di straordinarie capacità militari, trasforma la protesta dei cosacchi contro San Pietroburgo in una sollevazione di massa per “la libertà, lo sterminio della razza nobiliare, l’esenzione delle imposte e la distribuzione gratuita del sale”. Le sue truppe erano formate -annota Aleksandr Puškin- da “un’inverosimile quantità di tartari, baškiri, calmucchi, contadini, forzati e vagabondi d’ogni sorta”. Nell’estate del 1774 deve però cedere alle forze soverchianti messe in campo dal generale Michel’son a Caricyn. Con le catene ai piedi e rinchiuso in una gabbia, il sedicente Pietro III viene condotto a Mosca. Lì viene giudicato da un tribunale speciale, presieduto dal procuratore Aleksandr Vjazemskij. Pugačëv dichiara di pentirsi davanti a Dio, all’imperatrice e a tutto il “genere cristiano”. La sentenza, approvata da Caterina, viene pronunciata il 9 gennaio 1775: condannato allo squartamento.

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